lettera di una giovane

Mi chiamo Talpa. Ho quasi 27 anni e sono al secondo anno di Scuola di Specializzazione.

Domani devo partire per uno scavo. Ai miei non ho detto fino all’ultimo che mi sarei dovuta pagare vitto e alloggio. Volevo fare la “furba” e prelevare dal mio conto i soldi che mi servono. Li ho guadagnati con il mio primo vero lavoro da archeologa retribuito, disegnando fogli e fogli di cocci.

Poi la voglia di fare la furba mi è passata: “è facile usare i soldi degli altri” ha detto mio padre quando lo ha scoperto. Ha ragione.

“Insomma, 200 €.”

“…sì.”

“No sai. Col cavolo che paghi per lavorare. Tu stai a casa!”

Sì, sapevo che avrei dovuto pagare fin da subito. Non l’ho detto perché so che è sbagliato.

È così dannatamente sbagliato? Pago le tasse della Scuola (1700 euro l’anno per due anni) e pago per fare esperienza…

No. Non è vero. Non faccio più esperienza formativa da un pezzo. Sono già laureata e fare la stratigrafia, le schede, i rilievi, le foto, quotare e usare la stazione totale lo dovrei saper già fare, anche se la guerra tra poveri che si scatena nei nostri dipartimenti rende piuttosto difficile trovare qualcuno che ti insegni a usare la stazione totale, a fare complessi rilievi, insomma che ti trasmetta le sue conoscenze più specifiche, durante gli anni universitari.

E dovrei essere pagata per lavorare, data la mia laurea e la mia esperienza professionale, quella per cui ogni anno mi chiedono di tornare sullo scavo. Non è un’opinione, esistono le linee guida in materia di tirocini che chiaramente impediscono di far lavorare gratis una persona già laureata. Figuriamoci di farla lavorare pagando. Queste linee guida nel mondo dell’archeologia universitaria sono pura immaginazione.

“E’ un bello scavo!”

“Il professore mica paga per scavare, eh? Lui no che non lo fa gratis! E tu? Tu paghi!”

Hanno ragione.

Hanno ragione e basta. Io so che il professore non ci ricava niente, come il suo Dottorando (che è senza borsa e ci rimette ogni anno per questo scavo. Deduco sia in torto quanto me agli occhi dei miei). Ma questo i miei non lo sanno. Spiego loro che il Dipartimento ha messo poche centinaia di euro per questo scavo di 12 giorni e di 10 persone. 300 € vanno spesi in piano di sicurezza per il cantiere, se il comune ci regala i teloni riusciamo a spendere meno. I soldi restanti possono coprire parte delle spese per l’alloggio o almeno il vitto…

“E’ un bello scavo!”

Ci tengo. È il secondo anno che vado – dovrei andare- e trovare scavi universitari dove NON devi sborsare per il vitto e l’alloggio è sempre più difficile, dati i tagli costanti alla ricerca. Lo sanno tutti. Un tacito accordo silenzioso che agisce nell’illegalità.

“Tutte le ore spese nella campagna, tutte le lotte e le proteste! Sono un professionista! E poi fai così! Non è questione di soldi: tuo padre li ha fatti in cinque ore questo sabato, è il principio! Predichi bene e poi razzoli male!”

“E poi sei sempre la solita! Decidi, ti organizzi e poi comunichi all’ultimo minuto! E noi? Vivi ancora con noi! Chi è che ti mantiene? E se anche usi i soldi tuoi, chi ti ha mantenuto, eh, fino adesso? ” e così via. Hanno ragione.

“Hai ragione. Avete ragione. Non l’ho detto perché sapevo che è sbagliato.”

“Sei incoerente.”

È più un anno che andiamo avanti con la campagna “Mi riconosci?”. C’ho speso così tanto tempo e fatica e… e poi? Faccio il contrario. Perché?

“ E’ un bello scavo.”

Perché siamo a piedi nella vita vera. Vedo i miei colleghi più grandi che si arrabattano di qua e di là per guadagnare qualcosa, uno di loro mi ha detto che l’unica offerta di lavoro che ha trovato di recente è quella di un call-centre. I ragazzi della campagna “Mi Riconosci?” o fanno il servizio civile o il dottorato o due tre lavori insieme che c’entrano poco o nulla con la loro formazione. Però qualche fortunato fa didattica nel suo campo, qualcuno vive con i soldi del dottorato. Qualcuno. Nessuno si arrende.

Ma anche se faccio parte di questo gruppo loro non c’erano quando ho inviato la candidatura per questo scavo. Decine di splendide persone mi avrebbero dato una sberla e fermato prima di combinare il disastro. Decine di persone avrebbero capito cosa vuol dire trovarsi a dover scegliere tra la cosa che ami di più in assoluto e la dignità.

I ragazzi di triennale o di magistrale che fanno archeologia forse non riescono a capire perché per me è un dramma: sono costretti a pagare per ottenere i benedetti Crediti Formativi per l’attività pratica. Lo ero anche io. Almeno in quel momento era vera formazione. Ma adesso, con questo anno di campagna alle spalle, con sei anni di archeologia alle spalle, è difficile scegliere a cuor leggero.

Forse esagero, anzi, certamente. É solo che non ho ancora imparato a metter la dignità davanti all’amore per l’archeologia. È che mi spaventa la situazione dei miei colleghi più grandi: fra il non fare e il fare pagando la seconda opzione per tanti, forse anche per me, sembra il modo migliore per ignorare l’eventualità di un fallimento e tentare di vivere un po’ più serenamente, posticipando la cosa a tempo determinato – fra un anno, quando avrò finito la Scuola e mi ritroverò di nuovo senza piani.

“E’ un bello scavo. Avete ragione voi. Ditemi cosa devo fare.”

“Per me puoi anche andare, ma sappi che sei una venduta.”

E allora, che cosa devo fare? La cosa giusta. Ma la cosa giusta esiste? Se ci vado faccio torto a me stessa, ai ragazzi della campagna, a chi la segue e anche ai miei; se non ci vado faccio ancora torto a me stessa e a chi (nella mia stessa situazione, se non peggiore) contava su di me allo scavo.

E allora, di nuovo, cosa devo fare?

Talpa


2 Comments

silvia · 23/08/2016 at 23:01

Talpa, leggerti mi tocca molto. Io ho rinunciato a scavi belli (che forse mi avrebbero insegnato a scavare, io ancora a a 30 anni non mi sento capace) per andare a scavi piuttosto brutti, ma pagati. Poco, ma pagati, come responsabile di magazzino. Lava dividi imbusta sigla. E che dirti, non scavo più da due anni, da quando, venduta molto più di quanto ti senti tu, ho accettato il dottorato senza borsa “perchè non avevo altro”. Ecco, faccio i conti tutti i giorni con il senso di colpa, verso me stessa, verso i colleghi, verso i docenti perchè non studio abbastanza, non ne ho voglia!Verso l’archeologia stessa, che non ho amato abbastanza da voler passare le mie estati a scavare non pagata. Prova una via di mezzo. Concediti questo scavo ormai. I tuoi hanno ragione, ma non possono capirti fino in fondo. Nessun archeologo può capire quanto manchi l’odore della terra. Che si sia animali di scavo o meno, manca, punto. L’atmosfera. Qualcosa che solo lo scavo da.Ecco cosa siamo. Equilibristi. Tenta di fare anche altro, apriti altre strade e ogni tanto cerca di ritagliarti lo spazio per seguire la tua passione. Possibilmente pagata ovviamente. Ma finchè ce l’hai, ce la farai. Io l’ho persa purtroppo, quindi coccolala finchè puoi. Non smetterla di annaffiarla. Con affetto, una tua collega

Elisa · 15/01/2020 at 14:35

Cara Talpa, io non mi occupo di archeologia, ma lavoro comunque nell’ambito umanistico e mi sono ritrovata pienamente nelle tue parole. Anch’io innamorata dei miei studi, dopo la specialistica ho visto davanti a me una biforcazione netta: guadagnare qualcosa -6 euro l’ora- con un lavoro che niente aveva a che fare coi miei studi (non proprio call center ma quasi), o perseguire la mia passione con stage non pagati/ dal rimborso spese minimo che non bastava neanche per il caffè a colazione. In pratica, la mia passione o pagare l’affitto. Pensando fosse una situazione circoscritta, ho anche cercato una via d’uscita inviando curricula in varie grandi città italiane. Poi me ne sono resa conto: è l’Italia. Non sono io, non è colpa mia, è l’Italia (e faccio fatica a metterci la I maiuscola). Ho fatto domanda per dottorati all’estero, esclusivamente con borsa, ne ho vinto uno prestigioso e ora insegno la mia materia all’università. Non che sia facile trovare lavoro all’estero da straniera, per carità, questo apre un altro vaso di Pandora, ma almeno la possibilità di lavorare nel proprio ambito di studi con una paga decente esiste. E mal che vada, sono anni di formazione pagati e non si sa mai che porta si può aprire alla fine del percorso. Perché almeno la possibilità c’è. L’estero è stata la mia via d’uscita. Mi rendo conto che non può essere la soluzione perfetta per tutti, ma considerala come opzione. Se sei appassionata di archeologia, un dottorato all’estero ti consentirebbe di continuare a lavorare nel tuo ambito, venendo pagata nel frattempo. Inoltre ti darebbe accesso ad un mercato del lavoro diverso e possibilmente a opportunità lavorative all’interno dell’ unive. stessa, magari in ruoli in contatto tangenziale con l’archeologia.

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