una proposta di riforma del codice
Introduzione alla proposta di Riforma del Codice

Chi ci segue già sa perché abbiamo deciso di investire decine e decine di ore di lavoro nella proposta di Riforma del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che trovate qui di seguito.

Lo spieghiamo però per chi se lo stesse chiedendo leggendo queste righe. 

In questi mesi il Governo ha lavorato a una riforma del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, grazie a una legge delega consegnatagli dal Parlamento, che delinea anche il contenuto della riforma in essere. Ciò significa che il Governo si prepara a riformare il Codice, che contiene tutte le leggi fondamentali riguardo la tutela, la valorizzazione e la gestione del nostro Patrimonio culturale, per decreto, e senza alcun dibattito pubblico. 

Il Codice ha bisogno di una profonda revisione: è pieno di contraddizioni e di definizioni obsolete, ha una visione fortemente statalista della tutela e fortemente privatistica della valorizzazione, e manca di diverse parti che sarebbero fondamentali per permettere una migliore tutela, valorizzazione e conoscenza del Patrimonio culturale italiano. Ma la riforma che bolle in pentola non è stata scritta da persone che hanno una conoscenza specifica del settore: le commissioni, rigorosamente chiuse, erano composte da docenti di diritto amministrativo o di economia aziendale vicini alla politica. E infatti nella legge delega non vengono menzionate tantissime modifiche che sarebbero necessarie (a partire dalla ovvia riforma del sistema delle esternalizzazioni e del lavoro gratuito), e ne vengono menzionate altre (rivedere i casi in cui sia possibile l’alienazione, razionalizzare il sistema delle concessioni) di cui non si sente particolarmente il bisogno. Abbiamo ragione di pensare, dato chi ha scritto questa riforma, che le sorprese all’interno della stessa saranno tantissime, dalla maggiore facilità nella trasformazione degli istituti culturali pubblici in Fondazioni private, a più veloci concessioni e vendite, e via discorrendo. 

Non è questo ciò di cui il Patrimonio culturale ha bisogno. Ha bisogno di ben altro. Una riforma senza dibattito pubblico come quella costruita dai quadri ministeriali attuali sarebbe distruttiva per il Patrimonio. E per evitare la solita, noiosa accusa del “se non vi piace cosa stanno facendo, allora fate proposte”, ecco le proposte: più di 15 pagine di analisi del Codice e indicazione delle modifiche e delle integrazioni che ci appaiono necessarie. La nostra proposta di riforma del Codice avrà una formula discorsiva: siamo professionisti della Cultura, non siamo giuristi, e ciò che ci interessava era porre i temi e i contenuti, in modo da fornire un utile strumento al dibattito pubblico e al Ministero stesso. Nel caso di alcuni articoli, tuttavia, ci spingeremo a proporne nel dettaglio una riscrittura totale o parziale.

La nostra proposta di riforma verte su cinque pilastri fondamentali:

  1. superare la visione di Patrimonio culturale e Paesaggio come veicolo identitario o peggio “avente valore di civiltà”, per passare a un Patrimonio che abbia un valore sociale e culturale pubblico come veicolo di coscienza critica e memoria collettiva. Nel caso del Paesaggio, le categorie, più volte ripetute, di “bellezza” e “degrado” sono terribilmente soggettive e ideologiche, dunque da superare.
  2. superare la dicotomia “tutela allo Stato, gestione e valorizzazione ai privati” che tanti danni e tante contraddizioni ha prodotto in questi decenni, passando a una cooperazione organica tra istituzioni statali e soggetti privati sia nella tutela sia nella valorizzazione del Patrimonio.
  3. favorire la partecipazione e la cooperazione dei cittadini nella gestione (ampliamento intesa) del Patrimonio culturale, passando quindi da uno Stato, come quello dipinto nel Codice attuale, che è “istituzione statale” a uno Stato come composto dal corpo dei cittadini.
  4. revisionare profondamente il sistema delle esternalizzazioni, delle concessioni, delle sponsorizzazioni e di qualsiasi altra parte del Codice che, senza alcuna ragione apparente, concede a determinati soggetti privati (quelli dotati di un certo potere economico) uno spazio abnorme nella gestione del patrimonio culturale pubblico togliendo risorse alla cittadinanza.
  5. Integrare ampiamente il Codice con tutte quelle norme che, pur essendo necessarie e quotidiane nella vita di chi lavora al Ministero, tuttora mancano: dalla tutela di determinati beni, alle analisi scientifiche, al coinvolgimento della cittadinanza.

Sappiamo che questo documento non è e non potrà essere esaustivo: saremo ben felici di integrarlo e arricchirlo con i suggerimenti di voi lettori.

Sappiamo anche che questa proposta di riforma, creata da un gruppo di attivisti negli sprazzi di tempo libero tra un lavoro precario e un altro, è sicuramente molto più completa, ricca e soprattutto funzionale a una migliore tutela e valorizzazione del Patrimonio culturale italiano rispetto a quella, del tutto parziale e illogica, che emerge dalla legge delega. Al Ministero traggano le proprie conseguenze. Buona lettura. 

Articoli 1-17

I primi articoli del Codice, pur buoni nei principi che li guidano, avrebbero bisogno di un’adeguata revisione per metterli al passo coi tempi. Le nostre proposte di modifica si concentrano sulla revisione di definizioni che appaiono poco funzionali e foriere di una visione di Patrimonio culturale troppo legato a ideologie nazionali ed estetiche, e sull’inserimento tra i beni culturali di classi di manufatti e di produzioni antropiche che colpevolmente il Codice attuale dimentica. 

Nei principi enunciati all’articolo 1, proponiamo di modificare quanto segue: Comma 2: “La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale concorrono (a preservare) ad alimentare la memoria (della comunità nazionale e del suo territorio) collettiva e a promuovere (lo sviluppo della cultura) la crescita sociale e culturale della comunità nazionale”. Comma 3: “Lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale (e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione).”

All’articolo 2, suggeriamo di intervenire sul comma 2: “Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico, bibliografico e musicale e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge (quali testimonianze aventi valore di civiltà)  come aventi valore di eredità culturale e ruolo attivo nella formazione e nell’educazione di una coscienza condivisa. 

L’articolo 6, come tutte le parti del Codice che riguardano la valorizzazione (vedi oltre, art.101-121) va riscritto perché ampiamente disfunzionale, proponiamo di modificarlo come segue: “Comma 1. La valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a (promuovere) arricchire e diffondere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso da parte di tutta la cittadinanza, al fine di promuovere (lo sviluppo della cultura) la crescita sociale e culturale della comunità. (Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale). In riferimento al paesaggio, la valorizzazione comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi (o degradati), ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati con il valore sociale e culturale del bene paesaggistico”.  Comma 3. “La Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale, qualora ciò porti un beneficio alla collettività.”

L’articolo 9bis, come chiediamo da sempre, va modificato nel finale, passando da professionisti “in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale” a professionisti “in possesso dei requisiti individuati ai sensi della legge n.110 del 2014”.

Gli articoli 10 e 11 definiscono sia i beni culturali, sia le “cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela. L’impostazione non ci dispiace affatto, ma la lista va arricchita per non escludere beni di fondamentale importanza culturale.

Nell’articolo 10, vanno aggiunti i beni musicali alla lista “che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”, che poi si ripete più volte nell’articolo e nel codice: i beni che presentano interesse musicale devono sempre essere presenti. Il comma 3 va arricchito come segue: “Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13: a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, naturalistico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1; […] d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse, particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della musica, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere […]; e) le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che non siano ricomprese fra quelle indicate al comma 2 e che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica, archivistica, bibliografica, musicale, naturalistica o etnoantropologica, rivestano come complesso un eccezionale interesse.” 

E poi di seguito il comma 4 (“sono compresi tra i beni culturali…”) va arricchito con: “m) i resti umani e animali, a qualsiasi epoca risalenti, aventi eccezionale interesse per la comprensione delle società umane del passato; n) i resti di organismi viventi del passato, a qualsiasi epoca risalenti, aventi interesse per la ricostruzione della storia della vita sul territorio nazionale; o) i luoghi e le cose mobili e immobili aventi una rilevante relazione con i conflitti bellici e sociali di età contemporanea; p) i balli, i canti, le feste e le tradizioni popolari aventi valore di eredità collettiva locale o nazionale; q) geositi, habitat, specie endemiche o protette e tutti i beni naturalistici aventi valore di eredità collettiva locale o nazionale.”

Nell’articolo 11 ci preme solo aggiornare il comma 1 lettera i: “i) le vestigia individuate dalla vigente normativa in materia di tutela del patrimonio storico (della Prima guerra mondiale) dei due conflitti mondiali e degli atti e le azioni ad essi connessi, di cui all’articolo 50, comma 2.” La stessa proposta di revisione riguarderà l’articolo 50.

Certo, l’aggiornamento, necessario, di questi articoli, dovrebbe essere accompagnato da un altro atto necessario: la creazione di Soprintendenze, o parti di Soprintendenze dotate di personale in numero adeguato, che si occupino di etnoantropologia e cultura materiale contemporanea: elencare beni culturali senza che nessuno al Ministero sia in grado di riconoscerli, come fa il Codice ad oggi, è un esercizio del tutto fine a se stesso.

Negli articoli 12 e 14 (“verifica dell’interesse culturale” e “procedimento di dichiarazione”) suggeriamo di inserire nel codice anche la possibilità che la richiesta, corredata da adeguati dati conoscitivi, possa pervenire anche da privati cittadini, come di fatto già accade con diverse e usuali segnalazioni informali alle Soprintendenze.

Non riteniamo di dover suggerire altre modifiche per questi articoli.

Art. 18-52 

Nel Capo II, “Vigilanza e ispezione”, non riscontriamo problemi di sorta.

Il Capo III, “Protezione e conservazione” ci appare una delle parti meno problematiche del Codice, scritta sostanzialmente con l’idea- condivisibile- di dover porre la tutela come base per ogni azione nella Repubblica sui beni culturali. Le uniche modifiche e integrazioni proposte sono pensate per arginare fenomeni di abuso dei Beni, e per ribadire la centralità della sfera pubblica – e quindi dei cittadini – nel prendere le decisioni legate alla sopravvivenza stessa del Patrimonio. Ad esempio, la destinazione d’uso dei Beni è nella nostra proposta soggetta ad autorizzazione da parte del Ministero, per poter dare alle Soprintendenze gli strumenti per arginare fenomeni come la gentrificazione di quartieri interi delle nostre città, valutando caso per caso dove si tratti davvero di recupero di immobili e dove invece, dietro la maschera delle riqualificazioni, si celino svendita del Patrimonio e turistificazione. Proponiamo quindi di modificare l’articolo 21 (“Interventi soggetti ad autorizzazione”) come segue: comma 1 “c) lo smembramento di collezioni, serie e raccolte indipendentemente dalla proprietà della collezione stessa […] f) il mutamento di destinazione d’uso”; comma 2: “b. Il Soprintendente ha facoltà, nei casi individuati dall’art. 21 a, di proibire lo spostamento di BBCC, nel caso questo ne pregiudichi la tutela o la fruizione”. Comma 4: “Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali è subordinata ad autorizzazione del soprintendente. (Il mutamento di destinazione d’uso dei beni medesimi è comunicato al soprintendente per le finalità di cui all’articolo 20, comma 1)”

Proponiamo poi che lo studio dei Beni culturali debba essere in ogni caso concesso, in quanto eredità collettiva, pur senza calpestare la sfera privata. Ecco perché crediamo che, le Soprintendenze debbano avere la facoltà di stipulare accordi chiari con i proprietari privati dei Beni culturali, per garantirne studio e valorizzazione compatibilmente con tutte le esigenze. Crediamo anche però che la tutela e lo studio debbano essere sempre prioritari e garantiti, in quanto indispensabile tassello per poter conoscere a fondo il nostro Patrimonio e poterlo raccontare e tramandare. Proponiamo di modificare l’articolo 30 come segue: “3. I privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono tenuti a garantirne la conservazione e la fruizione per motivi di studio e ricerca, in accordo con il Soprintendente”

L’art.41 “Obblighi di versamento agli Archivi di Stato dei documenti conservati dalle amministrazioni statali  c.1. Gli organi giudiziari e amministrativi dello Stato versano all’archivio centrale dello Stato e agli archivi di Stato i documenti relativi agli affari esauriti da oltre trent’anni, unitamente agli strumenti che ne garantiscono la consultazione

Contraddice l’art.30 c.4 

Art.30, c.4 I soggetti indicati al comma 1 (Lo Stato, le Regioni, gli altri enti pubblici territoriali) hanno l’obbligo di conservare i propri archivi nella loro organicità e di ordinarli. I soggetti medesimi hanno altresì l’obbligo di inventariare i propri archivi storici, costituiti dai documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni ed istituiti in sezioni separate. Agli stessi obblighi di conservazione e inventariazione sono assoggettati i proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, di archivi privati per i quali sia intervenuta la dichiarazione di cui all’articolo 13

le modifiche al Codice introdotte nel 2014, volte a salvaguardare le fonti contemporanee e ad anticiparne la disponibilità per la ricerca storica, e che hanno ridotto da quaranta a trenta anni il limite temporale entro il quale la documentazione degli Enti statali deve essere versata agli Archivi di Stato, di fatto anticipano, anche per gli Enti non statali (e quindi anche per le Regioni), i termini entro i quali si possa parlare di archivio storico. Questo sebbene all’art. 30, c. 4, i quaranta anni continuino ad essere indicati come termine per l’individuazione della documentazione storica delle regioni, ma anche, in contraddizione con l’art. 41, dello Stato.

Poiché sul web appaiono posizioni diverse da parte di enti e persone autorevoli del settore (in alcuni casi viene indicato che, anche per gli enti pubblici non statali, sia da considerarsi storica la documentazione dopo i trenta anni; in altri, invece, dopo i quaranta), non è chiara quale sia la posizione del Ministero.

L’art. 48, che tratta dell’allestimento e delle autorizzazioni per le mostre ci sembra invece un buon articolo, sistematicamente non rispettato (spesso ci troviamo a denunciare mostre pensate più per raccogliere soldi che a stimolare conoscenza), aggirando il principio di tutela dei Beni coinvolti e della loro fruibilità. Vorremmo quindi vedere inserito in questo articolo un principio secondo il quale i beni si possano muovere solo per mostre dall’acclarato valore scientifico: nel caso in cui questo venga meno il Soprintendente dovrebbe avere la facoltà di non autorizzare lo spostamento di beni culturali di proprietà pubblica. Rafforzare questo articolo in tal senso ci sembra abbia il doppio vantaggio di tutelare i Beni da spostamenti quasi obbligati per questioni economiche o politiche, e di stimolare la creazione di mostre che non siano di spettacolo ma che servano davvero a stimolare lo sviluppo della nostra cultura.

Anche l’art 49 merita qualche riflessione, in quanto tratta di manifesti e cartelli pubblicitari. Sappiamo bene come le nostre città d’arte siano invase da manifesti pubblicitari enormi piazzati in occasione dei restauri: questi sono concessi dal comma 3 di questo articolo, e dall’articolo 121 (vedi oltre). Il comma 3 (“In relazione ai beni indicati al comma 1 il soprintendente, valutatane la compatibilità con il loro carattere artistico o storico, rilascia o nega il nulla osta o l’assenso per l’utilizzo a fini pubblicitari delle coperture dei ponteggi predisposti per l’esecuzione degli interventi di conservazione, per un periodo non superiore alla durata dei lavori. A tal fine alla richiesta di nulla osta o di assenso deve essere allegato il contratto di appalto dei lavori medesimi”) è inutile e va cassato, dato che il comma 1 già permette al Soprintendente di autorizzare l’affissione di manifesti pubblicitari qualora non danneggino “l’aspetto, il decoro o la pubblica fruizione” (altra espressione rivedibile). Modificare questo articolo e l’articolo 121 permetterebbe di smettere di vedere i nostri monumenti coperti da gigantografie di questo o quel marchio: il beneficio appare evidente. 

Nell’articolo 50 (“distacco di beni culturali”) va modificato il comma 2 come segue: “E’ vietato, senza l’autorizzazione del soprintendente, disporre ed eseguire il distacco di stemmi, graffiti, lapidi, iscrizioni, tabernacoli nonché la rimozione di cippi e monumenti, costituenti vestigia (della Prima guerra mondiale ai sensi della normativa in materia) dei due conflitti mondiali e degli atti e le azioni ad essi connessi”.

Articoli 53-87

La parte del codice riguardante alienazione, prelazione e circolazione dei Beni culturali potrebbe essere oggetto di forte revisione da parte del Governo, come fa ben intendere la legge delega sulla riforma: il che è davvero strano, dato che si tratta di una parte del Codice tutto sommato funzionale e funzionante, a differenza di tante altre.

Non è un tentativo nuovo: fino all’agosto 2017 le cose d’interesse storico-artistico archeologico ed etnografico potevano circolare solo e soltanto laddove gli uffici Esportazione avessero ritenuto conformità rispetto ad una eventuale perdita per il Patrimonio italiano, seguendo una circolare del 1974. Ma dal 2017 non è soggetta ad autorizzazione “delle cose che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, il cui valore sia inferiore ad euro 13.500, fatta eccezione per […]”. La cosa aveva dato adito a parecchie polemiche, ma con il decreto del 9.07.2018 il parlamento ha di fatto rinviato l’attuazione delle disposizioni relative alla libera circolazione dei beni (in riferimento a opere di autore non vivente, realizzati da più di settant’anni e di valore inferiore a 13.500 euro, che non costituiscano reperti archeologici, smembramento di monumenti o incunaboli e manoscritti) subordinandola all’adeguamento, da attuarsi entro il 31 dicembre 2019, del Sistema Uffici Esportazione (SUE): un nuovo Codice dei Beni Culturali in questo momento cade a fagiolo, no?

Il principio dell’alienabilità e dell’inalienabilità dei beni meriterebbe uno spazio e un approfondimento che non siamo in grado di offrire, poiché risulta essere da sempre argomento piuttosto delicato: da una parte i galleristi e i commercianti, dall’altra i cittadini che vedono come “negativa” ogni vendita o esportazione di beni culturali. Il Codice attuale appare da questo punto di vista equilibrato, tutelando lo Stato ma anche il cedente.

La parte realmente critica è quella introdotta nel 2017 in particolare all’articolo 65 (“Uscita definitiva”) comma 4: come detto, si aggiungono alle opere non soggette ad autorizzazione i manufatti di valore inferiore a 13.500 euro e opera di autore non più vivente. Vengono sì esclusi tutti i reperti archeologici, i monumenti, gli incunaboli, i manoscritti e gli archivi, ma, dato anche quanto sia facile ad oggi falsare il valore di un manufatto, data la debolezza delle Soprintendenze, il comma appare decisamente problematico: restano poi esclusi una serie infinita di oggetti legati all’età contemporanea che hanno sì un valore inferiore ai 13.500 euro, ma che possono avere una spiccata valenza sociale e culturale. Permetterne l’uscita definitiva senza autorizzazione non appare una grande idea: l’intera lettera b del comma 4 va rimossa. 

L’articolo 66 “Uscita temporanea per manifestazioni” è un buon articolo sistematicamente disatteso, dato che è normale vedere “beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria” essere prestati per mostre ed esposizioni. Proponiamo di modificare il comma 1 come segue: “Può essere autorizzata l’uscita temporanea dal territorio della Repubblica delle cose e dei beni culturali indicati nell’articolo 65, commi 1, 2, lettera a), e 3, per manifestazioni, mostre o esposizioni d’arte di alto interesse culturale e scientifico, sempre che ne siano garantite l’integrità e la sicurezza e vi sia un evidente vantaggio per la collettività”.

L’articolo 67 “Altri casi di uscita temporanea” va totalmente riscritto: essere mobilio di una sede consolare o far parte di un accordo diplomatico non appaiono motivi sufficienti per un bene culturale per lasciare il nostro Paese. 

L’attestato di libera circolazione ai sensi dell’articolo 68 ha validità quinquennale: ci sembra opportuno ridurla a tre anni, considerando tutto quello che concerne il mercato d’antiquariato.

L’articolo 71, al comma 7, spiega che per le mostre e le esposizioni i privati per esportare i propri beni culturali devono pagare una cauzione al Ministero, ma si chiude dicendo “Il Ministero può esonerare dall’obbligo della cauzione istituzioni di particolare importanza culturale”. Un periodo decisamente generico: proponiamo di cassarlo o di delineare al meglio quali istituzioni private siano esonerate dalla cauzione e per quali motivi. Crediamo sia necessario anche un comma che preveda la prelazione di beni culturali privati colposamente danneggiati durante trasferte e movimentazioni all’estero. 

Tutti gli altri articoli fino all’87 (sezione II e III) meritano un’attenta analisi da parte del legislatore in quanto trattano della circolazione dei beni dentro l’Unione Europea: non abbiamo però modifiche precise da proporre.

L’art. 61 al comma 6 può rappresentare una tutela estrema del cedente, fattore che può essere eliminato.

L’articolo 68, descrive il rilascio dell’attestato di libera circolazione impostando a 5 anni la validità per le esportazioni. Potrebbe essere sensato abbassare la valenza temporale fino a 3 anni, considerando tutto quello che concerne il mercato d’antiquariato.

Infine, da approfondire sicuramente l’articolo 78 che tratta della restituzione di beni rubati o scomparsi.

La parte specifica dice che l’azione di restituzione non si prescrive ai beni appartenenti a collezioni pubbliche museali, archivi, fondi ecclesiastici, sicuramente resta un passaggio da approfondire

Articoli 88-100

In questa parte del Codice vediamo tre grossi problemi da correggere. Il primo a nostro avviso è la visione che, come spiegato nell’introduzione, mette al centro lo Stato e il Ministero, come istituzioni, lasciando i cittadini a recitare la parte dei comprimari. Ci chiediamo, per quanto riguarda questa parte, se non sia il caso di riformarla in modo meno statalista e più attento alla partecipazione della collettività e dei cittadini. Le ricerche archeologiche, ad esempio, sono ad oggi “riservate al Ministero”, mentre si potrebbe ragionare su formule quali “possono essere condotte da Enti Locali, Università ed altri Istituti Culturali (individuati ai sensi di…) sotto la supervisione del Ministero”. Favorire il senso di appartenenza del Patrimonio Culturale non alla macchina statale ma a tutta la cittadinanza italiana appare essenziale per una sensata riforma del Codice. 

Il secondo, facilmente risolvibile, è che si parla esplicitamente di ricerche archeologiche ma non paleontologiche, seppur quel Patrimonio sia d’assoluto rilievo in Italia. Proponiamo di modificare l’articolo 88 comma 1 come segue per ovviare al problema: “1. Le ricerche archeologiche, paleontologiche e [..]”

Anche una riforma dell’istituto dell’esproprio appare opportuna. Sappiamo bene quanto la Soprintendenza faccia “paura” in quanto considerata capace di espropriare nel caso in cui avvengano rinvenimenti importanti. Nel Codice attuale, l’esproprio non appare come ultima spiaggia, come invece potrebbe e forse dovrebbe essere, per evitare quei timori (alla prova dei fatti spesso infondati) causati anche da una lettura superficiale di un codice che, tuttavia, dedica diversi articoli agli espropri e nessuno alle alternative: alternative che, ad oggi, spesso le Soprintendenze locali creano di volta in volta per facilitare la cooperazione con i cittadini. 

Proponiamo di modificare e arricchire gli articoli 95-100, dunque l’intero Capo VII, sottolineando e dettagliando soluzioni alternative e prioritarie rispetto all’esproprio, come forme di partenariato con il privato, cessione consensuale, comodato gratuito, cogestione dei terreni o del bene, concessione per fini di pubblica utilità etc. E crediamo sia necessario cambiare, in modo netto, il comma 1 dell’articolo 95, come segue: “I beni culturali immobili e mobili possono essere espropriati dal Ministero qualora rivestano un interesse eccezionale nell’ambito del Patrimonio culturale nazionale o qualora i proprietari dei beni rifiutino qualsiasi ragionevole forma di cooperazione con il Ministero e con gli enti pubblici per permettere la tutela, la fruizione e la valorizzazione dei beni stessi (per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione risponda ad un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi)”.

Art. 101-130

Questa è una delle parti più disfunzionali dell’intero Codice, necessitante una profonda revisione. Propone una visione di fruizione e valorizzazione del Patrimonio culturale, demandata a privati, che mal si conforma con quanto enunciato in tutti gli articoli precedenti e per nulla organica con il resto del codice. Dedicheremo a questa sezione tutto lo spazio necessario con proposte forti e dettagliate, che appaiono tuttavia utili alla più efficace fruizione e valorizzazione del Patrimonio culturale, nel vantaggio di tutta la cittadinanza. Andiamo con ordine. 

L’articolo 101 individua e definisce gli istituti e luoghi della cultura. Alcune definizioni sono imprecise e poco uniformi. Definire il museo una “struttura” è fuorviante, poiché il concetto rimanda alla costruzione fisica del luogo, al contenitore. Stesso problema presentano la definizione di biblioteca e di archivio. Proponiamo di passare dalla definizione “una struttura che…” a un più opportuno “un’istituzione che…”. Inoltre, nei primi tre commi dell’articolo 1 sono esplicitate le finalità dei luoghi che mancano per le successive: area archeologica, parco archeologico, complesso monumentale. Si ritiene necessario integrare il comma 2, lettere c, d, e, con la formula conclusiva “per finalità di educazione, di studio, ricerca o piacere”.

Vogliamo sottolineare che l’articolo 102 (comma 5) recita: “il Ministero può altresì trasferire alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, la disponibilità di istituti e luoghi della cultura, al fine di assicurare un’adeguata fruizione e valorizzazione dei beni ivi presenti”. Questo comma, perfettamente ragionevole in quanto discute dell’assegnazione ai territori di beni culturali specifici, valutati caso per caso, rende inutile qualsiasi legge sull’autonomia regionale per quanto riguarda i beni culturali, ma è applicato di rado e molto poco conosciuto e dibattuto.

L’articolo 103 regolamenta l’accesso ai luoghi della Cultura, e lo regolamenta in modo decisamente caotico: il comma 2 prevede il libero ingresso “per finalità di lettura, studio e ricerca” solo per archivi e biblioteche. Non si comprende perché per studiare e ricercare dentro i musei si debba pagare. Perché il Patrimonio culturale pubblico sia percepito come proprietà di tutti i cittadini, è necessario abbattere gli ostacoli economici e favorire l’accesso, a tutti e per tutti, nei luoghi della Cultura statali e non. Proponiamo una modifica sostanziale ma moderata, dal bassissimo impatto sulle casse pubbliche e le cui entrate mancanti sarebbero ampiamente ripagate dalla revisione dei servizi per il pubblico come da noi proposta (articolo 117): 

Articolo 103. Accesso ai luoghi e agli Istituti della cultura

  1. L’accesso agli istituti ed ai luoghi pubblici della cultura può essere gratuito o a pagamento. Il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali possono stipulare intese per coordinare l’accesso ad essi.
  2. L’accesso alle biblioteche ed agli archivi pubblici è sempre gratuito.
  3. L’accesso ai musei e siti d’interesse culturale (d’ora in poi solo “musei”) è sempre gratuito per tutti i cittadini di età inferiore a 18 e di età superiore ai 65, per i cittadini disabili e a un loro familiare o accompagnatore, per gli studenti e per i cittadini di cui al comma 4. Inoltre è sempre gratuito:
  1. L’accesso ai musei statali per tutti i cittadini italiani;
  2. L’accesso ai musei regionali per tutti i residenti nel territorio regionale;
  3. L’accesso ai musei civici per tutti i residenti nel territorio provinciale;
  1. Il Ministero, di concerto con l’INPS, provvede a fornire ai cittadini con ISEE inferiore a 23000 euro annui un certificato che permetta ad essi l’accesso gratuito a tutti i luoghi della cultura sul territorio nazionale.
  2. Nei casi di accesso a pagamento, il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali determinano:
  3. a) i casi di libero accesso e di ingresso gratuito;
  4. b) le categorie di biglietti e i criteri per la determinazione del relativo prezzo. 
  5. c) Per la gestione dei biglietti d’ingresso possono essere impiegate nuove tecnologie informatiche, con possibilità di prevendita e vendita presso terzi convenzionati;
  6. d) l’eventuale percentuale dei proventi dei biglietti da assegnare ad Enti terzi qualora ne possa derivare un beneficio per la collettività. 
  7. Eventuali agevolazioni per l’accesso devono essere regolate in modo da non creare discriminazioni ingiustificate nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea.

Nell’articolo 106 (uso individuale dei beni culturali) proponiamo di modificare il comma 1 come segue: “ Lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali possono concedere l’uso dei beni culturali che abbiano in consegna, qualora esistano evidenti vantaggi per la fruizione e la valorizzazione degli stessi, per finalità compatibili con con la finalità culturale e ruolo sociale pubblico dei beni (la loro destinazione culturale), a singoli richiedenti” e il comma 2-bis come segue: “Per i beni diversi da quelli indicati al comma 2, la concessione in uso è subordinata all’autorizzazione del Ministero, rilasciata a condizione che il conferimento garantisca la conservazione e la fruizione pubblica del bene e sia assicurata la compatibilità della destinazione d’uso con la finalità culturale e ruolo sociale pubblico (con il carattere storico-artistico) del bene medesimo. Con l’autorizzazione possono essere dettate prescrizioni per la migliore conservazione del bene.” 

L’articolo 110 regolamenta gli incassi e i proventi derivanti dalla vendita dei biglietti di ingresso agli istituti e ai luoghi della cultura. Come spiegheremo più avanti (articolo 117) non troviamo una motivazione valida per esternalizzare il servizio di biglietteria e i relativi incassi, o parte degli stessi, per cui l’articolo 110, seguendo la modifica dell’articolo 117 da noi proposta, diverrebbe inutile e andrebbe cassato. 

Gli articoli 111-115 propongono un’idea di valorizzazione obsoleta, totalmente demandata ai privati e senza regole chiare, in cui un ruolo fondamentale hanno le associazioni di volontariato. Riteniamo necessario riscrivere interamente il Capo II per fare chiarezza su cosa si intende per valorizzazione, quali soggetti privati e secondo quale modalità possono prendere parte alle attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica. Diventa necessario contenere tutte quelle attività che portano a svilire il valore e il significato di patrimonio culturale, che spingono ad utilizzare i beni come location dove organizzare eventi privati, come sfondo o cornice per azioni meramente commerciali o per attrarre pubblici facendo leva su forme di intrattenimento piegate alle logiche di mercato. Ricordando che il patrimonio culturale ha tra i suoi obiettivi quello di favorire la nascita di una coscienza collettiva e di costituire il collante per la creazione di una identità condivisa, proponiamo di intervenire sui seguenti articoli:

All’articolo 111, proponiamo di modificare il comma 1 come segue: “Le attività di valorizzazione dei beni culturali consistono nella costituzione ed organizzazione dalle azioni (stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali) finalizzate all’esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all’articolo 6. A tali attività possono concorrere, cooperare o partecipare anche soggetti privati secondo le modalità specificate nell’articolo 115.” E il comma 2 come segue: “La valorizzazione è ad iniziativa pubblica ed è svolta con il sostegno di soggetti privati nelle forme individuate dalla legge”.

Nell’Articolo 112 le criticità sono diverse. Il comma 5 dice che lo stato può creare nuovi soggetti giuridici per scrivere piani di gestione culturale: è un comma inutile e va cassato, come il comma 8 a questo strettamente legato. Il comma 9 fa riferimento alla partecipazione di persone giuridiche private senza fine di lucro e associazioni di volontariato nei processi di valorizzazione. Proponiamo di eliminare tutte le parti che fanno riferimento alla collaborazione con associazioni di volontariato, anche se “dotate di adeguati requisiti, che abbiano per statuto finalità di promozione e diffusione della conoscenza dei beni culturali”: queste sono comprese tra gli “enti privati” citati nel comma e non vi è alcuna ragione di porle su un piedistallo.

Nell’articolo 113 viene regolamentata la valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata: proponiamo di vincolare il privato che riceve finanziamenti pubblici per i beni di sua proprietà a renderli fruibili al pubblico, secondo accordi con gli enti pubblici che hanno fornito il sostegno in questione.

L’articolo 115, “Forme di gestione” è interamente da riscrivere, in quanto basato sull’istituto della concessione a terzi che è solo una delle forme di cooperazione tra pubblico e privato nella gestione del Patrimonio culturale, e non è certo una delle più funzionali. Proponiamo di riscrivere l’articolo come segue:

Art. 115 Forme di gestione

  1. Le attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica sono gestite in forma diretta, ibrida, attraverso forme di cooperazione o partenariato tra enti pubblici e privati.
  2. La gestione diretta è svolta per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico. Le amministrazioni medesime possono attuare la gestione diretta anche in forma consortile pubblica.
  3. Al fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali e favorire la partecipazione dei cittadini alla gestione del patrimonio culturale, lo Stato e gli enti pubblici territoriali cui i beni pertengono possono ricorrere a forme di cooperazione o partenariato con enti privati o con altri enti pubblici. 
  4. La scelta tra le due forme di gestione indicate ai commi 2 e 3 è attuata mediante valutazione comparativa in termini di opportunità economico-finanziarie e di efficacia nell’azione di valorizzazione del patrimonio culturale coinvolto nell’operazione al fine di garantirne la migliore fruizione, comprensione e conoscenza da parte della cittadinanza. La gestione in forma ibrida è attuata nel rispetto dei parametri di cui all’articolo 114.
  5. Le amministrazioni cui i beni pertengono regolano i rapporti con i gli enti partecipanti al partenariato mediante la costruzione di un progetto di gestione delle attività di tutela e valorizzazione ed i relativi tempi di attuazione, i livelli qualitativi delle attività da assicurare e dei servizi da erogare, nonché le professionalità degli addetti. Nel progetto di gestione sono indicati i servizi essenziali che devono essere comunque garantiti per la pubblica fruizione del bene, nonché gli obiettivi da conseguire.
  6. La vigilanza sul rapporto di partenariato e sul raggiungimento degli obiettivi è esercitata anche dalle amministrazioni cui i beni pertengono. L’inadempimento, da parte dei partecipanti al partenariato, degli obblighi derivanti dal progetto di gestione, oltre alle conseguenze convenzionalmente stabilite, determina anche, a richiesta delle amministrazioni cui i beni pertengono, la risoluzione del rapporto di partenariato e la cessazione, senza indennizzo, della gestione congiunta dei beni.

7.. Alle funzioni ed ai compiti derivanti dalle disposizioni del presente articolo il Ministero provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Alla luce di quanto proposto per l’articolo 115, l’articolo 116 (Tutela dei beni culturali conferiti o concessi in uso) diverrebbe inutile.

L’articolo 117 regola i servizi per il pubblico, esternalizzandoli tutti senza alcun criterio e senza alcuna logica. Proponiamo di riscriverlo come segue:

Articolo 117 Servizi per il pubblico

  1. Negli istituti e nei luoghi della cultura indicati all’articolo 101 sono istituiti servizi di assistenza culturale, educazione e accoglienza per il pubblico, di competenza esclusiva della pubblica amministrazione.
  2. Negli istituti e nei luoghi della cultura indicati all’articolo 101 possono essere istituiti servizi aggiuntivi, i quali possono essere esternalizzati qualora vi sia un vantaggio economico e sociale per l’ente pubblico che decide di esternalizzare.
  3. Rientrano tra i servizi di cui al comma 1:
  4. a) i servizi di prima accoglienza, biglietteria e guardaroba;
  5. b) i servizi di pulizia e manutenzione;
  6. c)  i servizi riguardanti beni librari e archivistici per la fornitura di riproduzioni e il recapito del prestito bibliotecario;
  7. d) la gestione delle riproduzioni di beni culturali e di raccolte discografiche, di diapoteche e biblioteche museali;
  8. e) i servizi educativi, ivi inclusi quelli di assistenza e di intrattenimento per l’infanzia, i servizi di informazione, di guida e assistenza didattica, i centri di incontro;
  9. Rientrano tra i servizi aggiuntivi di cui al comma 2:
  10. a) il servizio editoriale e di vendita riguardante i cataloghi e i sussidi catalografici, audiovisivi e informatici, ogni altro materiale informativo;
  11. b) la gestione dei punti vendita e l’utilizzazione commerciale delle riproduzioni dei beni;
  12. c) i servizi di caffetteria e ristorazione;
  13. d) l’organizzazione di mostre occasionali e straordinarie;
  14. e) l’organizzazione di manifestazioni artistiche e culturali legate alle arti visive e musicali.
  15. La gestione dei servizi medesimi è attuata nelle forme previste dall’articolo 115.
  16. I canoni di concessione dei servizi di cui al comma 2 sono incassati e ripartiti ai sensi dell’articolo 110.

L’articolo 118 (Promozione di attività di studio e ricerca) e 119 (Diffusione della conoscenza del patrimonio culturale) sono brevissimi e sintetici, eppure riguardano due attività assolutamente centrali. Vanno ampliati, se non trasformati in un intero Capo del Codice. Il Ministero, che secondo il Codice “può concludere accordi per diffondere la conoscenza del patrimonio culturale e favorirne la fruizione” deve essere invece vincolato per legge a diffondere la conoscenza del patrimonio culturale. 

Gli articoli 120 e 121 parlano di sponsorizzazione dei beni culturali e accordi con le fondazioni bancarie. Non è affatto chiaro perché si parli solo di accordi con fondazioni bancarie, e crediamo che “al fine di coordinare gli interventi di valorizzazione sul patrimonio culturale e, in tale contesto, garantire l’equilibrato impiego delle risorse finanziarie messe a disposizione” il Ministero abbia il dovere di stipulare accordi con qualsiasi realtà privata guidata da buone intenzioni: l’articolo va quindi riscritto parlando di “Accordi con realtà private”, senza mettere le fondazioni bancarie su un piedistallo.

Per quanto riguarda la sponsorizzazione, questa formula, mutuata dallo sport, è come noto penetrabile a tentativi di evasione ed elusione fiscale, grazie alla formula delle sponsorizzazioni gonfiate. Non sembra dunque la formula migliore per attrarre donazioni private, come non sembra utile che in caso di sponsorizzazione abbia luogo “l’associazione del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto all’iniziativa oggetto del contributo (art.120 comma 2)”, nè che ci siano “ forme di controllo, da parte del soggetto erogante, sulla realizzazione dell’iniziativa cui il contributo si riferisce (comma 3)”. Appare molto più produttivo passare da un sistema di sponsorizzazioni a un sistema di donazioni, in cui il privato donatore sia mecenate e non sponsor, riceva sì un premio fiscale e pubblicità gratuita grazie alla sua importante donazione al Patrimonio culturale pubblico, ma non abbia il controllo sulle iniziative che verranno realizzate con quella donazione né la possibilità esclusiva di associare il proprio marchio al bene culturale oggetto della donazione. I Beni Culturali non hanno solo, come scritto nel Codice in ogni occasione, un valore “storico e artistico”, ma bensì un valore “sociale e culturale”, che trascende l’arte e la storia: per questo motivo è sbagliato e dannoso che l’immagine stessa dei nostri monumenti, ovvero la parte immateriale di quel Patrimonio, venga così facilmente associata a marchi o a qualsiasi altro attore sociale, se non le comunità che vivono quel monumento.

Negli articoli dal 122 al 130 vengono specificate le tempistiche e le modalità relative alla consultabilità dei documenti riservati conservati negli archivi sia pubblici che privati e sulla protezione dei dati personali. Non abbiamo riscontrato problematicità tali da proporre una modifica.

Art. 131-159 

Questa sezione prima che modificata va difesa: difesa perché, come vedremo, le tante buone norme che contiene vengono sistematicamente disattese. Ma ciò non toglie che alcune modifiche siano necessarie. 

Partiamo dalla definizione di paesaggio. Il Codice dei Beni Culturali all’articolo 131 offre una definizione di paesaggio quantomeno problematica, e che imposta ogni definizione e articolo al riguardo secondo una linea molto antiquata e molto poco scientifica: “Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni […] Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”. Il paesaggio visto come frutto dell’identità culturale di una Nazione è, oltre che argomentabile con scarsa efficacia, pericoloso, perché introduce degli elementi analitici su queste tematiche fuorvianti, che finiscono inevitabilmente per portare a tutelare solo ciò che fa comodo alla costruzione di una narrativa nazionale, e non allo studio e alla tutela del paesaggio nella sua – scomoda – complessità. L’utilizzo di categorie come “degrado” o “bellezza”, poi, spesso usate in questa parte del Codice, generano una visione troppo soggettiva e “impressionistica” di ciò che deve essere oggetto di tutela. Come potranno rientrare nella categoria di “bello” i paesaggi urbani iper industrializzati che, anche se problematici dal punti di vista ecologico, rappresentano una caratteristica centrale nel paesaggio italiano contemporaneo?

Lo Stato deve tutelare e di fatto già tutela tutto il paesaggio, in sinergia con tutti i Ministeri che possono avere competenze al riguardo, e quindi MiBACT e Ambiente in primis. Il paesaggio è allo stesso tempo sia il contesto assoluto dove ogni azione umana si svolge (assieme alle relative narrazioni) e il motore delle azioni umane stesse: è inconcepibile l’esistenza stessa delle nostre comunità rimuovendo il paesaggio come condicio sine qua non.  La tutela del Paesaggio è quindi un’azione da intendere organicamente, come sistema di riferimento di ogni azione di tutela, come stimolo verso fruizione e valorizzazione dei Beni da parte delle comunità e dei turisti, che sia pubblica e concertata con la necessaria tutela dell’Ambiente (inteso qui come “ecosistemi”). Non può quindi limitarsi ad azioni verso elementi straordinari o di notevole pregio, come inteso ora nel Codice, deve essere rivolta verso la complessità del sistema. Per fare ciò però è necessaria una definizione di paesaggio (e una revisione di questa sezione eliminando i ricorrenti richiami alla “bellezza”) che possa essere davvero omnicomprensiva, totale, e che possa prevedere al suo interno i rispettivi campi d’azione dei Ministeri e delle discipline. E quindi, delle norme contenute in questo Codice.

Proponiamo quindi questa definizione di paesaggio (articolo 131): “1. Per paesaggio s’intende lo spazio geografico risultato di processi naturali e antropici, concorrenti alla modellazione del territorio. 2. Il seguente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti presenti in esso frutto di processi antropici, e tutela la memoria di tutti quei processi naturali recanti valore culturale legati al territorio della Repubblica Italiana.”

Altri articoli su cui vogliamo soffermarci sono i seguenti.

Nell’articolo 135 (“Pianificazione paesaggistica”), il problema principale è che è disatteso: dopo 15 anni, pochissime regioni hanno elaborato il piano paesaggistico. Proponiamo quindi di integrare il comma 1 come segue: “…] [A tale fine le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito denominati: “piani paesaggistici”. L’elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143, ed entro un anno dall’entrata in vigore del presente Codice”. Suggeriamo poi di modificare il comma 4 lettera b: “Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate in particolare: b) alla riqualificazione delle aree compromesse (o degradate)”.

L’articolo 136 individua ed elenca gli immobili di notevole interesse pubblico. L’intero articolo è ben poco funzionale, arriviamo a leggerci (comma 1 lettera d) “le bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.Proponiamo di eliminare il concetto di bellezza come canone di valutazione o di descrizione, in quanto assai relativo e generico, e di riscriverlo come segue:

“1. Sono soggetti alle disposizioni di questo Titolo per il loro notevole interesse pubblico:

  1. a) le cose immobili che hanno valore di eredità culturale ed ambientale collettiva (cospicui caratteri di bellezza naturale), geositi o luoghi aventi valore di (singolarità geologica o) memoria storica, ivi compresi gli alberi monumentali e gli habitat di specie endemiche e protette;
  2. b) le ville, i giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della Parte seconda del presente codice, che si distinguono per la loro rilevanza storica, culturale o naturalistica  (non comune bellezza);
  3. c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore di eredità culturale collettiva (valore estetico e tradizionale), inclusi i centri ed i nuclei storici (2);
  4. d) (le bellezze panoramiche) le vedute panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si possano ammirare rilevanti scorci e panorami ambientali (goda lo spettacolo di quelle bellezze)”.

Nell’articolo 137, “Commissioni regionali”, proponiamo una modifica al comma 2, perchè non si capisce perchè proprio le fondazioni siano tra i soggetti nominati nel codice. 

“2. Di ciascuna commissione fanno parte di diritto il direttore regionale, il soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio ed il soprintendente per i beni archeologici competenti per territorio, nonché due responsabili preposti agli uffici regionali competenti in materia di paesaggio. I restanti membri, in numero non superiore a quattro, sono nominati dalla regione tra soggetti con qualificata, pluriennale e documentata professionalità ed esperienza nella tutela del paesaggio, di norma scelti nell’ambito di terne designate, rispettivamente, dalle università aventi sede nella regione, e dai soggetti privati senza scopo di lucro individuati (dalle fondazioni aventi per statuto finalità di promozione e tutela del patrimonio culturale e dalle associazioni portatrici di interessi diffusi individuate) ai sensi delle vigenti disposizioni di legge in materia di ambiente e danno ambientale.[…]”

L’articolo 143 regolamenta il piano paesaggistico. Chiediamo di aggiungere anche qui, al comma 2: “Le regioni, il Ministero ed il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare possono stipulare intese per la definizione delle modalità di elaborazione congiunta dei piani paesaggistici, salvo quanto previsto dall’articolo 135, comma 1, terzo periodo. (Nell’intesa è stabilito il termine entro il quale deve essere completata l’elaborazione del piano). […] [Il piano è approvato con provvedimento regionale entro un anno dall’entrata in vigore del presente Codice (il termine fissato nell’accordo).[…]”. Coerentemente con quanto proposto per l’articolo 135. Si chiede poi di eliminare il concetto di “degradato” dal 4 lettera b: “4. Il piano può prevedere: b) la individuazione delle aree gravemente compromesse (o degradate) nelle quali la realizzazione degli interventi effettivamente volti al recupero ed alla riqualificazione non richiede il rilascio dell’autorizzazione di cui all’articolo 146.”

Gli articoli successivi 144-159 (Capo III) normano la pianificazione paesaggistica, strumento propositivo nei riguardi della tutela del paesaggio. Il piano paesaggistico, redatto dalle regioni congiuntamente al MiBACT, garantisce inoltre la conservazione, la preservazione, l’uso e la valorizzazione, di specifiche categorie di beni territoriali, ha inoltre segnato un’importante novità per la conoscenza e la salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche. Abbiamo individuato in alcuni articoli passaggi complessi e lungaggini amministrative che di certo non agevolano e non facilitano tutte le attività di competenza regionale. Pertanto riteniamo utile un intervento mirato in quegli articoli organicamente complessi.

Art.160-184

Non riteniamo di avere le competenze per proporre dettagliate modifiche di questa parte del codice, ma dobbiamo sottolinearne le criticità evidenti. Le sanzioni amministrative e penali illustrate dall’articolo 160 al 181 sono davvero ridicole, disorganiche e difficili da giustificare per uno Stato che voglia apparire serio.

Se si ignorano le disposizioni in materia di circolazione internazionale (art.165) si è condannati a pagare da 77 a 465 euro, se si vendono beni culturali illecitamente si è puniti “con la reclusione fino ad un anno e la multa da euro 1.549,50 a euro 77.469”, la contraffazione a fine di trarne profitto è punita con reclusione da “tre mesi fino a quattro anni e con la multa da euro 103 a euro 3.099”, mentre se concessionario si impossessa illecitamente di beni pubblici (ma non li vende) la reclusione va da uno a sei anni (art.173). Sembrano pene messe a caso, del tutto incapaci di fungere da deterrente in un mercato che vale milioni e milioni di euro.

In diversi articoli deve poi essere distinto il dolo dall’atto compiuto per ignoranza, ad esempio nell’articolo 169 (Opere illecite) o 175 (Violazioni in materia di ricerche archeologiche), articoli in cui le pene per chi compie tali opere per errore sono troppo alte (e infatti mai applicate, pensiamo ai volontari che danneggiano le fontane storiche per ignoranza), mentre per chi le compie conscio delle leggi spesso la reclusione di un anno può essere troppo poco. 

L’articolo 170 punisce “chiunque destina i beni culturali indicati nell’articolo 10 ad uso incompatibile con il loro carattere storico od artistico o pregiudizievole per la loro conservazione o integrità”: dati i ripetuti casi di uso di beni culturali in modi chiaramente pregiudizievoli la loro conservazione e integrità, ci chiediamo se non sia il caso di aggiornare questo articolo in modo da renderlo efficace ed applicato.

Infine non affrontiamo in questa sede le “Disposizioni transitorie, abrogative e entrata in vigore” (articoli 182-184), perchè in particolare l’articolo 182 è stato focus di altri nostri approfondimenti in passato. Basti dire che alcune di queste disposizioni transitorie sono in vigore da 15 anni: una revisione appare opportuna. Eppure, sembra incredibile, neppure la revisione delle disposizioni transitorie è prevista nella legge delega che il Governo ha ora in mano. 

Giusto un accenno: nell’articolo 182 la norma transitoria che prevede le classi individuate come idonee a fare l’esame di stato per restauratore deve passare da transitoria a permanente: se transitoria infatti sarebbe discriminatoria nei confronti di coloro che non hanno potuto partecipare alla selezione. Bisogna poi permettere a queste persone di accedere in maniera permanente alla posizione di collaboratore. Ora i collaboratori sono coloro che fanno un corso di 2700 h per tecnico restauratore. Ogni tot di anni i collaboratori, considerata la maturata esperienza, possano avere diritto con un esame di stato al ruolo di restauratore, in modo da garantire nel tempo uno scatto di carriera. 

Sembra necessaria poi pertura verso tutti coloro che, formatisi anni orsono, hanno utilizzato percorsi non regolamentati e oggi non possono lavorare, affinché possano essere rivalutati e reinseriti. Insomma, l’intera questione va abbondantemente approfondita e rivista. 

L’articolo 184, comma 1 bis, l’ultimo di tutto il Codice, va amabilmente cancellato per intero: “1-bis. Con l’espressione “servizi aggiuntivi” riportata in leggi o regolamenti si intendono i “servizi per il pubblico” di cui all’articolo 117”: “servizi aggiuntivi” e “servizi per il pubblico” non devono MAI essere sinonimi, ed è molto grave che il Codice attuale invece lo stabilisca per legge contro ogni norma di buonsenso e di lingua italiana.

In tutte le sezioni precedenti ci siamo concentrati su cosa nel codice non va e su cosa migliorare e modificare: pochi sono stati gli accenni alle integrazioni e alle cose mancanti. Però nel Codice c’è davvero tanto che manca. Qualsiasi riforma che non vada ad affrontare e colmare queste lacune sarebbe una riforma superficiale e controproducente.

Elenchiamo di seguito alcuni degli argomenti che dovrebbero essere trattati ampiamente nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, e che invece mancano del tutto o vengono trattati in poche righe.

Anzitutto, è necessaria un’ampia parte del Codice che spieghi come comportarsi con i beni immateriali: si parla di beni archeologici, architettonici, archivistici, paesaggistici, ma non si tratta per nulla di come trattare il Patrimonio immateriale. Un Patrimonio immateriale non solo demoetnoantropologico, ma anche musicale o artistico in genere (del tutto assente nel codice attuale). Non basta aggiungere questi beni alle liste elencate negli articoli 10 e 11: è necessario dedicarci diversi articoli dettagliando modalità di tutela e valorizzazione.  

Non è esplicitata nel Codice una visione della natura come cultura, che tenga conto dei beni naturalistici come parte dell’ambiente antropizzato italiano e quindi del paesaggio culturale: questo ostacola un lavoro di concerto con il Ministero dell’Ambiente per la tutela e valorizzazione degli stessi, che spesso si trovano in un limbo tra i due. Per esempio, basti pensare alla vicinanza che spesso esiste tra parchi naturalistici e musei naturalistici, i quali difficilmente riescono a collaborare perché afferenti a due ministeri diversi. Riempire questo vuoto normativo dettagliando la specificità di questi beni è necessario.

Ci sono poi diverse lacune riguardanti i beni materiali. Nel Codice abbondano i dettagli su come trattare stemmi, graffiti, reperti archeologici ed altro, ai resti umani e animali, e agli oggetti legati all’età contemporanea (alla scienza, alla tecnica, alle guerre, alle lotte sociali) con l’ovvia conseguenza che ogni Soprintendenza agisce a gusto proprio. Per i beni paleontologici vale lo stesso problema: non sono distinti da quelli archeologici ma sono profondamente diversi dagli stessi in quanto non riferiti a società umane. Questo è un problema molto serio che va colmato. Per quanto riguarda il patrimonio demoetnoantropologico e legato all’età contemporanea, appare evidente la necessità di creare Soprintendenze territoriali che se ne occupino: ad oggi è un Patrimonio lasciato a sé stesso. Per i beni paleontologici sembra opportuna una collaborazione con le soprintendenze archeologiche (o le sezioni archeologiche delle Soprintendenze attuali), ma attraverso l’assunzione di profili professionali specifici.

C’è poi una questione che riguarda i già citati resti umani e animali, e tutti gli altri beni culturali: la questione delle analisi scientifiche. Sappiamo che molte analisi scientifiche possono essere più o meno invasive, per cui l’opportunità di condurle o meno deve essere attentamente valutata caso per caso: nel codice linee guida a riguardo sono totalmente assenti (vaghi riferimenti sono all’articolo 67 e 118) con la conseguenza, anche qui, che ogni Soprintendenza fa di testa propria. Aggiungere 4 o 5 articoli che dettino delle linee guida base su come e quando condurre analisi scientifiche su beni culturali, appare decisamente opportuno.

Questo introduce un altro tema: l’assenza di divisione tra i beni culturali. Per portare all’estero un osso di pollo trovato in uno scavo medievale, stando alla legge le procedure dovrebbero essere identiche a quelle per spostare un Caravaggio. Appare ormai chiaro che il Codice deve essere ampiamente rivisto creando una ampia classe di beni culturali (dal grande valore per gli specialisti, ma pressoché nullo per il pubblico) che possa essere spostata, studiata, analizzata e movimentata secondo norme precise e rigorose ma molto più fluide di quelle che riguardano i beni culturali che possono essere esposti al pubblico, o che rappresentano un unicum, o ancora il cui spostamento abbia un impatto di qualsiasi tipo sulla vita del territorio. Questo faciliterebbe la ricerca scientifica, e ostacolerebbe il prestito di pezzi straordinari per mostre dal nullo valore scientifico.

Infine manca nel presente codice qualsiasi riferimento alle azioni volte al coinvolgimento diretto dei pubblici, fondate su relazioni e reciprocità. Segnaliamo la totale assenza di linee guida ed accenni per quanto riguarda le politiche per l’accesso e la partecipazione decisionale alla vita e alle attività culturali, indispensabili per lo sviluppo del senso critico delle comunità. Un Codice che regolamente nel dettaglio le modalità di gestione e la bigliettazione, ma non offre agli Istituti culturali i mezzi legislativi base per coinvolgere i pubblici, non ha senso. Noi proponiamo una visione lontana da quella attuale, che vede il singolo visitare come fruitore passivo volto al consumo culturale. Il Codice dovrebbe dedicare diversi articoli all’alternativa, più moderna e funzionale: un approccio pianificato/organizzativo, finalizzato allo sviluppo di nuove e diversificate relazioni con i pubblici nonché un processo attivo e intenzionale volto alla creazione di legami di senso tra le persone e le organizzazioni culturale, in una prospettiva di lungo termine. Una sezione del Codice sui “doveri delle istituzioni culturali nel coinvolgimento della cittadinanza e del pubblico” appare necessaria, vincolando le istituzioni a rispettare determinati standard e determinate linee generali ma, allo stesso modo, vincolando per legge lo Stato e gli altri enti pubblici a fornire risorse e mezzi per rendere possibili queste attività in modo continuativo. Il fine ultimo è quello di creare nella comunità un senso di appartenenza, partecipazione e generare stretti legami con le istituzioni culturali: così facendo il numero di visitatori aumenterebbe, calerebbe l’esclusione sociale e calerebbero le differenze. Tutto questo, nel nostro Codice dei Beni Culturali, deve esserci.

Sarebbero tante altre le questioni non trattate nel Codice attuale, ma ci fermiamo qui. Crediamo che ciò sia sufficiente per dare ai legislatori modo di riflettere su quante cose manchino in quella legge delega, e nella riforma che stanno scrivendo: siamo a completa disposizione per costruire insieme proposte ancor più dettagliate, qualora vi sia la disponibilità a riformare il Codice secondo le indicazioni di chi il Patrimonio culturale lo conosce e lo pratica ogni giorno. 

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