Ci sono momenti in cui è difficile trovare le parole giuste, forse perchè semplicemente parole giuste non esistono, perché ogni parola è sbagliata. Eppure tacere, non parlare affatto, diviene ancora più sbagliato. 

Ne sono state dette tante, di parole sbagliate, in queste settimane, tante ne saranno ancora dette, tante ne abbiamo dette e ne diremo anche noi: abbiamo sperato, abbiamo voluto sperare, noi come tanti altri, che le misure prese nei confronti dei luoghi della cultura fossero esagerate, spropositate, spaventati più dalla perdita del nostro lavoro e del nostro reddito che dalla diffusione di un virus di cui sappiamo ancora troppo poco. Abbiamo voluto sperare che il problema fosse ciò che aveva già chiuso, non ciò che era ancora aperto. Abbiamo dovuto scoprire, a forza di bollettini sempre più gravi, che quelle misure non solo non erano esagerate ma che erano troppo deboli: e così anche le palestre, le discoteche, gli stadi hanno chiuso, e altri ancora ne chiuderanno, dalle fabbriche agli uffici agli aeroporti, in Italia e in Europa. Luoghi che solo pochi giorni fa sembravano intoccabili di fronte agli spazi culturali “sacrificabili”. Ma non era così.

E ora ci troviamo qui, confusi e impauriti. Alcuni chiusi nelle proprie case, con la possibilità di lavorare o studiare con difficoltà piccole o grandi da remoto, altri in ferie forzate, altri invece costretti a lavorare nonostante tutto, perché inseriti in quei settori che non sono stati toccati dal decreto, e altri, troppi, privi di lavoro e stipendio, da giorni o da settimane. 

Anche tra noi, nel nostro gruppo, ormai, la domanda più frequente è diventata “ma tu stai ancora lavorando? Hai lo stipendio?”, in una bolla surreale. La voglia e la necessità di stare a casa per bloccare il contagio e l’emergenza il più velocemente possibile si scontrano con la paura di rimanere senza il necessario per vivere e sostenersi economicamente. Forzati a mettere in competizione l’aspetto sanitario e l’aspetto sociale, come se entrambi non fossero drammatiche facce della stessa medaglia e come se davvero si potesse affrontare una emergenza alla volta, in una grottesca riproposizione delle giustificazioni che in questi decenni hanno indebolito la sanità pubblica e precarizzato il lavoro proprio in quel settore che ora ha il dovere di affrontare in prima linea la crisi. Lo facevano a noi e lo facevano a loro, lo facevano a tutti. E ci troviamo a pagarne le conseguenze in tutta la loro drammaticità, e ci adoperiamo per contenerle, per noi, per i nostri cari e per tutta la collettività. Senza la possibilità di tornare indietro e con l’unica scelta di guardare fisso avanti a noi.

D’improvviso gli spazi che per anni ci eravamo impegnati a riempire, a far divenire luogo per rivendicazioni e autocoscienza, dai circoli alle piazze, divengono spazi da evitare per il bene di tutti, e gli spazi che da anni cercavamo di superare, perchè “non sono abbastanza”, ovvero gli spazi online, divengono gli unici spazi praticabili per far fronte all’isolamento. Non solo: divengono gli unici spazi praticabili per non perdere il senso di comunità e per guardare oltre l’emergenza. Dall’alto si moltiplicano gli appelli a “restare sul divano”, ma certo non è la strada giusta. Dobbiamo restare a casa, sì, ma attivi. La normalità in cui abbiamo vissuto fino a due settimane fa era lungi dall’essere una buona normalità. Possiamo fare qualcosa? Dobbiamo. Possiamo rivendicare la nostra esistenza e la nostra condizione che si fa ancor più drammatica? Dobbiamo. Possiamo portare cultura e conoscenza ad un Paese serrato nelle proprie case? Dobbiamo. 

Non è facile, è terribilmente complesso pensare di “fare” in un momento in cui ci si chiede soprattutto di non fare, in cui molti sono senza lavoro e tanti hanno il terrore di perderlo, in cui anche solo immaginare il futuro in un presente immerso in un’emergenza che non accennerà a calare ancora per settimane sembra un atto privo di fondamento. Ma è in momenti come questi che è necessario avere coraggio, è tutto ciò che ci rimane: il coraggio di guardare oltre l’emergenza, il coraggio di vivere l’emergenza, di capire che è figlia non solo di un presente inatteso ma anche di un passato scellerato. Non dobbiamo attenderne la fine, dobbiamo attraversarla giorno per giorno. Come? Difficile dirlo, ma avremo settimane per pensarci. Di certo sostenendo attivamente i nostri colleghi che lavorano negli ospedali. Di certo raccontando, facendo diventare lo spazio virtuale un luogo più vivo che mai: riempiamolo di conferenze, di storie, di dibattiti culturali e sì, anche di assemblee e incontri. Non smettiamo di essere ciò che siamo, non smettiamo di fare ciò che facciamo, ma divulghiamolo, confrontandoci, producendo, mettendo insieme le nostre esigenze.

Facciamo la nostra parte, spingiamo la politica a fare la propria. Non è facile immaginare, ma il tempo è una risorsa straordinaria. Ora lo abbiamo, e questo è il tempo del coraggio e delle idee: quando tutto ciò finirà, il mondo non sarà più come prima. Ma se prima non era granchè, sta a noi fare in modo che divenga un luogo migliore. Un luogo che, lo sta scoprendo proprio ora, non ha senso senza di noi e senza la cultura.

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