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Il Governo tiene aperte le librerie in tutta Italia, ma nel frattempo chiude tutte le biblioteche senza neppure menzionarle nei comunicati. Una scelta drammatica.

Senza che ne parlasse il ministro, senza che ne parlasse il Presidente del Consiglio, senza neppure essere menzionate esplicitamente nel testo del DPCM del 3 novembre, che le include sotto la dicitura “altri luoghi della cultura”, le biblioteche da domani chiuderanno in tutta Italia, come gli archivi, senza distinzione tra zone “rosse” o “gialle”, tra spazi disponibili, tra necessità territoriali. Sarà vietato ogni servizio al pubblico, anche il semplice prestito. Resteranno solo i servizi da remoto, per le strutture che riescono a offrirli, e, parrebbe, anche una parziale apertura delle biblioteche universitarie per i soli utenti interni all’istituto, scelta quest’ultima che dipenderà dalle scelte dei Comitati regionali di coordinamento delle Università e dei singoli Rettori. Una frammentazione enorme tra chi può e chi non può, tra chi è dentro e chi è fuori.

Si stanno in poche ore moltiplicando gli appelli di studenti, ricercatori, dottorandi, professionisti di vario genere, semplici utenti, e non ultimo dell’Associazione Italiana Biblioteche, per chiedere al Governo “perché”, semplicemente “perché”. Trincerati dietro un “dobbiamo limitare gli spostamenti”, certo non corroborato dai dati (ci sono forse più spostamenti verso le biblioteche, magari piccole, che verso i grandi centri commerciali o i luoghi di culto?), i ministri hanno deliberato la serrata di servizi essenziali per le nostre comunità e per chi con quei servizi lavora. Non ci dilungheremo sui danni arrecati: una biblioteca chiusa, non vuol dire soltanto “non poter accedere ai libri”, per settimane, per mesi. Vuol dire terminare quella pletora di servizi quotidiani che lì si svolgono, dalla lettura dei giornali alle attività d’inclusione sociale per le fasce deboli, gli stranieri o gli anziani, o ancora per il recupero della dispersione scolastica. Vuol dire che ci saranno persone che non hanno un luogo dove studiare in serenità (vuoi perché non possono permettersi di pagare il riscaldamento o il collegamento a internet, vuoi per un clima familiare ingestibile), che vivranno momenti di spossamento drammatico e rischieranno di restare indietro. E con loro i comuni, le aree, i territori che hanno in quegli spazi un faro di cultura e speranza. Vuol dire che migliaia di ricercatori e professionisti non potranno più lavorare, in assenza di ciò che rende possibile il loro lavoro. Vuol dire che i bibliotecari precari vedranno di nuovo a rischio il loro lavoro e il loro reddito. 

Che si sia deliberata la chiusura senza aver pensato a tutto questo è inquietante, perché certo correttivi (per il reddito, per garantire servizi minimi alle persone in difficoltà o ai ricercatori, per ampliare quelli online) in sette mesi si sarebbero potuti, si sarebbero dovuti prendere. Ancor più inquietante è che le biblioteche e gli archivi siano assenti dalla narrazione governativa, e quindi anche da ciò che compare sui giornali: menzionati in un brevissimo comunicato stampa, a cose fatte, dal Ministero dei Beni Culturali, non compaiono invece in tutte le altre comunicazioni riassuntive delle misure prese. Eppure, la stessa narrazione governativa punta invece, molto, su un altro punto: le librerie restano aperte, anche nelle zone rosse, perché il libri sono “beni essenziali”. 

Pur essendo i primi a voler sostenere la filiale dell’editoria e delle piccole librerie, non possiamo non notare una profonda contraddizione in questo racconto, in questa comunicazione governativa. I libri sono forse più contagiosi se presi in prestito in biblioteca invece che sfogliati dai clienti di una libreria? No, non è così, è evidente, e permettere il prestito e la frequentazione delle biblioteche previa prenotazione sarebbe stato semplicissimo. Invece i libri vanno bene solo se acquistati. Il lettore potrà facilmente cogliere non solo l’ideologia alla base ma anche le conseguenze pratiche di questa scelta, ovvero quelle di aumentare radicalmente le diseguaglianze esistenti. Chi non può permettersi di acquistare libri in gran quantità sarà bloccato da queste chiusure molto più di chi invece può ovviare alle carenze mettendo mano al portafoglio; chi per motivi economici o familiari non ha un posto idoneo dove studiare o lavorare sarà bloccato da queste chiusure molto più di chi ce l’ha. 

La filiera delle piccole librerie ha bisogno di aiuti concreti, e permettere di tenere aperto è un gesto simbolico più che un aiuto concreto, non basta. Le biblioteche invece (come gli archivi, i musei, i teatri, i cinema) sono spazi necessari per la democrazia, la diffusione della cultura e la socialità. Sono spazi di libertà e di inclusione: una società priva di tutti questi è una società più povera e debole. E in un momento di debolezza come questo, non è accettabile che le istituzioni culturali siano costrette a venire meno ai loro compiti. Non è accettabile che uno Stato contravvenga la sua stessa legge che aveva dichiarato, e ancora dichiara, questi luoghi “essenziali”. Non è accettabile che a pagare i costi dell’emergenza siano gli ultimi, e che la ricerca e la cultura vengano bloccate nel momento in cui più ce n’è bisogno. Se il libro è davvero un bene essenziale, deve essere garantito a tutte e tutti, senza distinzione di censo e possibilità economiche.


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