Sembra che i lavoratori della Cultura siano visti dal loro Ministero solo come fornitori di servizi senza alcun diritto. Una realtà che ha cause e conseguenze.

Più passano i giorni, più si ha l’impressione che la dirigenza del Ministero dei Beni Culturali non abbia la più pallida idea di cosa stia accadendo nel Paese dal 23 febbraio 2020. Quel giorno un decreto governativo ha lasciato senza lavoro e reddito decine e poi centinaia di migliaia di lavoratori del Patrimonio culturale, del turismo e dello spettacolo, creando un effetto valanga che avrà andamento e conseguenze diversi da quelle dell’emergenza sanitaria, ma non necessariamente meno gravi. Ci si chiede dunque: il Ministero davvero non ne ha idea, o nega la realtà, fingendo che tutto ciò non stia realmente accadendo? La domanda sorge spontanea, non solo leggendo il decreto del 16 marzo, in cui le misure volte a contenere gli effetti dell’emergenza sociale erano pressochè nulle, ma anche e soprattutto mettendo in fila gli eventi di questo ultimo mese.

Partiamo dal pregresso, dato che tutto quello che stiamo vivendo è frutto del sistema costruito negli ultimi trent’anni, basato su esternalizzazioni, lavoro precario e profitti per pochi. Sappiamo benissimo che a Dario Franceschini e a tanti dirigenti del Ministero quel sistema piaceva e piace: si tratta di un ceto politico e dirigenziale che ha sempre difeso a spada tratta le esternalizzazioni e la gestione privata del Patrimonio culturale senza mai battersi per ottenere vincoli che garantissero il beneficio pubblico e la tutela dei lavoratori. Ma è rilevante notare che, se fino a qualche settimana fa quell’atteggiamento poteva essere giustificato da qualche argomento, o meglio visioni ideologiche argomentate con una comunicazione grossolana, che strumentalizzava e manipolava numeri (quelli riguardo la crescita del turismo, ad esempio) tacendone altri, oggi neppure quei numeri sono rimasti. Da quattro settimane tutto questo è sparito, annullato, volatilizzato. I biglietti sono a zero, il turismo è a zero, esattamente come a zero sono le entrate dei lavoratori più precari, esternalizzati, a collaborazione, a prestazione occasionale o in nero. Quel modello ha mostrato pienamente tutte le sue debolezze e la sua iniquità, creando una situazione di emergenza drammatica che, almeno sul piano sociale, si sarebbe potuto se non evitare quantomeno gestire con tempi e numeri diversi, in presenza di contratti e tutele che mai si è voluto introdurre. Ma possiamo tranquillamente affermare che lo stesso sistema stia vivendo una crisi da cui difficilmente potrà riprendersi.

Eppure tutto ciò che il Ministro e i suoi hanno fatto, in queste settimane, sembra completamente atto a tenere in piedi il sistema e le aziende che lo dominano, più che ad affrontare le esigenze del Paese. All’indomani dello scoppio della crisi Dario Franceschini ha incontrato il responsabile del dipartimento Agricoltura e Turismo (sic) della Lega, Gian Marco Centinaio (2 marzo), poi il Ministero ha annullato la domenica gratuita al Museo, ha incontrato le imprese del Turismo, del Cinema, dello Spettacolo (28 febbraio), poi Federculture e le imprese del settore del Patrimonio Culturale (4 marzo). Ma non ha mai aperto un dialogo con i più deboli e numerosi della filiera: i lavoratori esternalizzati e precari. Non ha incontrato neppure gli enti locali, esposti in prima linea al collasso turistico, culturale e sociale che ne potrebbe conseguire, e che pure si sono fatti promotori di misure molto coraggiose per far fronte all’emergenza. Nel frattempo agisce, nel silenzio, sempre nella stessa direzione: l’11 marzo la Direzione Generale Bilancio ha esplicitamente invitato gli uffici periferici del Ministero a sospendere i contratti che si possono sospendere. Non stupisce, dato il contesto, che nel decreto del 16 marzo, arrivato dopo tre settimane di crisi di intensità mai vista, siano previste una serie di misure, come il rimborso per biglietti o tour, tutte volte a difendere le aziende dello spettacolo e del turismo, con fondi che serviranno per appianare le perdite, non per dare lavoro. 

Sono misure figlie della cieca fede in un sistema assurto ormai a dogma, a scapito della più banale attinenza alla realtà. Sia chiaro, è sacrosanto tutelare anche gli investimenti, ma non dimenticando altri aspetti vitali. E invece ciò che sta accadendo è proprio questo: la tutela degli investimenti per tutelare un sistema, ad ogni costo, in questo caso a costo di lasciare decine di migliaia di persone senza soldi per mangiare.

Si ha davvero l’impressione che i lavoratori della Cultura siano visti solo come fornitori di servizi senza alcun diritto. Mentre gli si chiede di “usare al massimo i loro social e siti” (8 marzo), si sprecano le parole su cosa deve fare il mondo della cultura, non si spende una sola parola su ciò che stanno patendo i lavoratori di quel mondo: gli archeologi ancora costretti a lavorare nei cantieri nonostante non vi sia nulla di essenziale e urgente in essi; le guide e gli educatori museali ridotti a reddito zero da settimane; l’intero comparto turistico (vale il 13% del PIL) crollato come un castello di carta; le cooperative che in tutta Italia interrompono collaborazioni e contratti.

È in momenti difficili come questi che si nota quanto sarebbe importante avere un Ministro capace, preparato e dedito a ciò che amministra, e non un avvocato con esperienza esclusivamente politica. Ma in un momento come questo sarebbe un grave errore soffermarsi su ciò che dovrebbe essere: dobbiamo concentrarci su ciò che deve essere. E ciò che deve essere è una revisione totale di un sistema che se non viene smantellato creerà solo e soltanto costi, economici e sociali: non ha minimamente senso mantenere delle aziende private con fondi statali, se queste non garantiscono il mantenimento dei livelli occupazionali. 

Reddito immediato per tutti i lavoratori del settore, almeno per qualche mese, per far fronte alle spese ed evitare il collasso economico-sociale; un sistema di incentivi e obblighi per le imprese perché aumentino le stabilizzazioni anche durante la crisi; aiuto statali solo a chi tutela il lavoro e rispetta determinati standard; aumento delle assunzioni pubbliche, non solo statali; e, approfittando di queste settimane di totale blocco, revisione profonda del sistema che ha regolato e dominato il settore culturale (e non solo) in questi trent’anni, limitando esternalizzazioni e subappalti ai casi in cui ci sia un vantaggio per la collettività e una tutela del lavoro, attraverso un sistema di precisi vincoli e contrappesi. Sono ovvietà, prima erano utili e urgenti, adesso sono misure emergenziali che vanno prese all’istante, se si vuole evitare il peggio. È possibile che né il Ministro né il Ministero abbiano intenzione di affrontare l’emergenza e la realtà: ma questa invaderà le stanze governative come un fiume in piena se non si farà qualcosa in tempo. Se il Ministero dei Beni Culturali se ne laverà le mani, starà al Governo prenderne atto, con gli altri ministeri competenti, dall’Economia al Lavoro. E starà a noi fargliene prendere atto prima che sia troppo tardi.

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