Qual è il rapporto tra influencer e patrimonio culturale, e perché spesso si scatenano polemiche? Un’analisi partendo da alcuni casi recenti.

Pochi giorni fa è stato pubblicato su Vogue il servizio fotografico che ha come protagonista l’influencer Chiara Ferragni e la Galleria degli Uffizi e…non ha fatto notizia. A dispetto di quanto attendevano in molti, non è esploso nessuno scandalo né polemica social, nessun trending topic su Twitter. Questo ci permette di riprendere un dibattito mai sopito, provando a chiederci quale sia il rapporto tra influencer e patrimonio culturale.

Nei mesi post-lockdown, infatti, è sembrato che il mondo culturale abbia visto negli influencer un modo per uscire dalla crisi. Ma forse sarebbe meglio dire il mondo del turismo culturale, in quanto il fenomeno è legato prettamente all’obiettivo di ottenere “più visitatori”. La Regione Veneto aveva ideato durante la quarantena un piano che prevedeva proprio di usare gli “influencer” per rilanciare il turismo. A giugno, l’Emilia-Romagna aveva reclutato Stefano Accorsi. Pochi giorni, fa Luca Bizzarri è diventato testimonial della Galleria dell’Accademia di Firenze. Questo solo per elencare alcuni casi recenti.

Non è un fenomeno nuovo. Già prima della quarantena, a marzo, lo youtuber Luis Sal era stato impiegato per promuovere una mostra a Bologna. Andando ancora più indietro nel tempo, troviamo che nel 2018 il Museo Archeologico di Napoli affidò la propria campagna promozionale al gruppo satirico The Jackal, mentre i Musei Vaticani, ormai da anni, utilizzano influencer per promuovere i loro tour esclusivi, fino al recentissimo coinvolgimento di Chiara Ferragni e dell’Estetista cinica. Sembra però che la chiusura forzata dei musei causa COVID e il successivo stato di crisi di numerose istituzioni culturali abbiano portato a un’accelerazione del fenomeno, nel disperato tentativo di trovare una soluzione semplice, e circostanziata nel tempo e nelle spese, a un problema complesso.

In questo articolo cercheremo di fare il punto della situazione, trattando sia di influencer “di professione”, cioè che hanno costruito una carriera grazie al loro saper comunicare a molti tramite i social, sia di personaggi che godono di ampia fama e che sono quindi divenuti  influencer perché, grazie al loro successo in diversi ambiti (cinema, musica, sport…), sono – o almeno sembrano – in grado di dare visibilità a “qualcosa”. Le due categorie, per quanto riguarda la promozione del patrimonio culturale, presentano pochissime differenze all’atto pratico.

Al servizio dell’arte, o viceversa?

Tre casi recenti ci aiutano a contestualizzare il problema. Il 17 giugno Chiara Ferragni e Fedez hanno usufruito di una visita esclusiva ai Musei Vaticani, dandone notizia sui loro canali social. Dovevano promuovere un modo esclusivo e “in” di visitare il Museo, da soli, all’alba, come avevano fatto altri vip nei mesi precedenti, e quello hanno fatto. Il caso in questione non ha nulla di nuovo: in situazioni come questa il Museo diventa una location esclusiva qualunque, ma questo è un fenomeno che ha ormai preso campo da anni. Il fatto che tanta gente si sia indignata perchè a chi paga di più viene permesso “di più” è un fatto di difficile interpretazione, dato che l’intero sistema capitalistico in cui viviamo si basa su questo molto opinabile principio.

Il ciclista Peter Sagan pochi giorni dopo ha promosso la Pinacoteca di Brera con un video, che ha fatto più o meno legittimamente arrabbiare molte guide turistiche. Il caso è molto diverso dal precedente: qui il museo è promosso come “per tutti”, tanto che Sagan stesso partecipa a un tour guidato con altri turisti, e diverse opere d’arte sono protagoniste del video. Il problema quindi non sta nel messaggio, ma semmai nei modi: è inevitabile chiedersi, infatti, perché per promuovere il museo in modo divertente si sia escogitata una gag in cui Peter Sagan conosce le opere meglio della guida che lo accompagna. Una scelta “facile”, banalizzante e anche poco rispettosa delle professionalità che si trovano a operare all’interno di un istituto culturale. Ma la centralità del museo è innegabile.

Il caso di Chiara Ferragni agli Uffizi, scoppiato lo scorso 17 luglio, non ha però niente a che fare con quelli sopracitati: come è stato già rilevato da altri, in questa circostanza l’influencer, assimilabile a un’azienda vera e propria, ha pagato per un servizio fotografico agli Uffizi; di fatto è la Ferragni ad aver utilizzato la Galleria e non viceversa. Ma non è stata la leggittimità di questo uso – su cui si potrebbe a lungo discutere – ad aver infiammato i social: la polemica è infatti scaturita da un post Instagram delle Gallerie degli Uffizi, in cui si definiva la Ferragni stessa “una sorta di divinità contemporanea”, fatto giudicato dai più inappropriato. La domanda da porsi in questo caso, quindi, è perché le Gallerie abbiano deciso in modo così esplicito di contribuire gratuitamente  all’idealizzazione per fini commerciali del personaggio di Chiara Ferragni e, di conseguenza, al successo di un’azienda. A questa scelta, quantomeno discutibile, in questi giorni si è aggiunta a corollario quella di promuovere con gli scatti del medesimo servizio una mostra a Hong Kong, con decine di capolavori provenienti dalla galleria fiorentina.

Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che il problema non è mai stato e mai sarà il fatto che sia legittimo o meno “mettere gli influencer al servizio dell’arte”, ma come riuscirci senza creare il processo inverso, cioè quello di mettere gli spazi culturali al servizio di aziende e personaggi. Nel caso dei Vaticani, il “problema”, o insomma l’oggetto del dibattere, era legato al fatto di prevedere visite esclusive solo a chi paga; nel caso degli Uffizi era legato alle discutibili strategie social della Galleria. E infatti non si è creato nessuno scandalo a seguito della pubblicazione servizio di Vogue, mentre che la strategia degli Uffizi fosse opinabile era chiaro da subito, da quando cioè il direttore Eike Schmidt parlò di un incremento di visitatori del 27% “a causa di Chiara Ferragni”: forzatura evidente, dato che nello stesso weekend, il terzo di luglio, i Musei Vaticani e il Colosseo avessero fatto meglio e senza aver invitato influencer: +41% e + 38%.

Si dirà, anzi si dice, che adoperando influencer di vario genere, dato che queste persone hanno molti followers, si contribuisce a far conoscere il Museo. In realtà questo è spesso falso. Ciò che accade è che pezzi del museo vengono semplicemente visti da milioni di persone, ma è tutto da dimostrare che questo porti a una conoscenza e al conseguente aumento di turisti.

Impressionante è in tal senso il caso del concerto di Martin Garrix a Selinunte.

Gli influencer portano più turisti?

Il 29 luglio 2017 il più famoso dj del mondo, Martin Garrix, si esibì in concerto letteralmente di fronte ai templi di Selinunte, pagando l’affitto della location poco più di una buona sala per matrimoni (20 mila euro). I vantaggi per la casa discografica di Garrix erano evidenti, in virtù delle spettacolari immagini con i templi dorici sullo sfondo, perfette per essere distribuite e vendute. I possibili (?) danni materiali alle strutture erano altrettanto evidenti. Ma ancor più rilevanti erano i danni immateriali, il rischio cioè, per pochi spiccioli, di trasformare il parco in un set come tanti altri, solo con uno sfondo diverso

Vista la cifra pattuita, a dir poco ridicola, la direzione del Parco sperava di guadagnare dal fatto che i milioni di fan di Garrix, che mai avevano sentito parlare di Selinunte, si sarebbero riversati nel Parco dopo aver visto i templi di sfuggita come sfondo nel concerto del loro beniamino: non solo non è andata così, ma i visitatori di Selinunte, nonostante due concerti di Martin Garrix e uno di Sean Paul, sono calati drasticamente sia nel 2018 sia nel 2019, nonostante il trend siciliano e internazionale fosse invece positivo. Chiaramente sono calati per tanti altri motivi, indipendenti dal concerto, ma questo episodio dà la riprova, nel caso fosse necessaria, che far esibire artisti famosi in un luogo culturale non porta automaticamente benefici.

In questo senso, il caso degli Uffizi è ancora una volta emblematico. Tantissimi personaggi famosi visitano gli Uffizi, da sempre. Ma da qualche anno il direttore ha deciso di pubblicizzare la cosa, dandone sistematicamente notizia sui canali social del Museo, diffondendo fotografie che lo ritraggono assieme ai vip, come se si trattasse di un evento di grande rilevanza. Oltre al rischio, non marginale, di essere assorbito nella propaganda politica o pubblicitaria del visitatore di turno, mettendo di conseguenza il museo al servizio di interessi privati, va notato che è davvero strano per una Galleria di rilievo mondiale pubblicizzare la visita del vip di turno, alla stregua di una trattoria o di un negozio di artigianato. Che questo porti visitatori aggiuntivi è, anche in questo caso, tutto da vedere, dato che i visitatori della Galleria degli Uffizi, quella dove i vip si fanno fotografare, restano costanti da due anni, mentre crescono Boboli e Palazzo Pitti.

Conclusioni: oltre gli influencer

E arriviamo al dunque. Gli influencer non sono il punto, sono solo uno degli infiniti mezzi che un museo, un territorio, un’istituzione può e deve – perché no – adoperare per farsi conoscere. Prendiamo i musei: nelle loro stanze hanno già tutte le potenzialità per riuscire a conquistare i visitatori. La scelta di assoldare influencer potrebbe aiutare nel suscitare interesse in chi non ha mai pensato di entrare in una istituzione museale, ma certo non riuscirà a risolvere problemi legati a quelli che vengono definiti i “non visitatori”, che hanno motivazioni articolate dietro la scelta o la mancanza di interesse nel visitare un simile istituto. I Musei Vaticani, mentre invitano influencer per risollevarsi, sono al collasso, con tagli di personale e difficoltà consistenti

All’interno di un percorso condiviso e complesso, il personaggio famoso può dare molto in termini di visibilità: pensiamo ad esempio all’esperienza di RisorgiMarche, nella quale il ruolo di Neri Marcorè come “frontman” fu effettivamente rilevante. Si trattava di una persona non solo nota, ma anche legata al territorio e coinvolta nel progetto per affetto e dovere nei confronti dello stesso. Ma questo contesto “virtuoso” si può creare anche con un personaggio pagato, a patto ci sia dietro una coerente progettualità. 

Il problema è che oggi questa progettualità manca nella maggior parte dei casi. Tali scelte estemporanee, sostenute da direttori di musei o governatori di regione, non fanno che confermare la mancanza di qualunque tipo di pianificazione a medio-lungo termine per ampliare il bacino di utenza o per incrementare il rapporto di fidelizzazione. La corsa alla percentuale di ingressi maggiore rispetto a quella del fine settimana precedente, o dell’anno precedente, non serve a nessuno, e contribuisce allo sciocco interesse di fare numero e favorire il consumo culturale di “una volta e basta”, anziché intervenire nella costruzione di legami tra i pubblici e patrimonio culturale, che permangano nel tempo. Che poi, sia chiaro, solo le istituzioni con grossa disponibilità economica possono mettere a libro paga personaggi famosi per autopromuoversi. E se per caso si decidesse di tagliare sul costo del lavoro puntando tutto sulla pubblicità, il rischio, oltre che di aggravare il turismo di massa, è quello di condannare chi è più indietro a rimanere sempre più indietro.


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