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Alcuni lavoratori ci raccontano la vicenda di Sistema Museo, cooperativa in costante crescita nonostante tagli agli stipendi e riduzione dei diritti dei lavoratori fin dal 2010.

Sistema Museo è una di quelle che si potrebbe definire “una realtà in crescita”, nel nostro settore. Una società cooperativa che, come recita il loro sito, “dal 1990 fornisce servizi e competenze specializzate per la gestione e la valorizzazione di musei e beni culturali. In oltre venticinque anni di attività l’azienda è diventata una tra le prime realtà italiane di settore e un solido punto di riferimento per molte amministrazioni e per un significativo numero di utenti e visitatori”. Gestisce quasi un centinaio tra musei, siti, biblioteche, teatri e infopoint tra Marche, Umbria, Puglia, Sardegna e Friuli-Venezia Giulia. Ha un totale di 219 soci lavoratori che si occupano di accoglienza, guardiania, educazione, biglietteria impiegati con contratti a tempo indeterminato e determinato. Come ci hanno spiegato alcuni dipendenti, dalle cui testimonianze nasce questo articolo, “molte sedi museali nelle quali lavoriamo, negli ultimi anni, hanno registrato un incremento considerevole di presenze e con essi anche corposi ricavi derivati dalla biglietteria, visite guidate, bookshop, servizi educativi, affitto sale, organizzazione mostre e altro ancora.” Denaro che va a sommarsi ai contributi annui che Sistema Museo riceve da parte dei Comuni e dal Ministero, che variano da caso a caso: 300 mila euro annui per i Musei Civici di Pesaro, 167 mila per i musei civici e il museo nazionale di Spoleto, e via discorrendo.

Ci occupiamo di Sistema Museo perché alcuni dipendenti, che preferiscono rimanere anonimi per non rischiare di perdere il posto di lavoro e avere ritorsioni, ci hanno scritto per raccontarci quanto accade da anni in questa cooperativa e a quali condizioni contrattuali e salariali sono sottoposti. Dalle loro testimonianze pare evidente che oggi per diventare una realtà in crescita, un punto di riferimento per la gestione del patrimonio culturale nel nostro Paese, è necessario vessare i lavoratori. Perché sì, nonostante l’aumento costante degli introiti, le condizioni dei soci lavoratori di Sistema Museo sono diventate sempre più critiche, fin da luglio 2010, ovvero da quando la cooperativa ha decretato lo stato di crisi aziendale.  Uno stato di crisi cessato il 31 dicembre 2019 che ha comportato per i soci lavoratori (citando solo alcuni provvedimenti): la trattenuta delle mensilità aggiuntive tredicesima e quattordicesima e dei Rol e quelle sulle retribuzioni del 15% per il periodo da luglio 2013 a dicembre 2014, del 10% per tutto l’anno 2015, del 5% per il 2016 e successivamente del 13,5% per il periodo che va da giugno a dicembre 2017 e del 7,5% per l’annualità 2018. Decurtazioni e perdite imposte a tutti i lavoratori impiegati in decine di sedi culturali, un ammanco per ciascun dipendente che ha comportato mediamente circa 20 mila euro di minori entrate. Eppure, nonostante la “crisi aziendale”, la cooperativa continuava a vincere appalti e concessioni in tutta Italia, da Spoleto a Udine, dalle Marche alla Sardegna. 

Ma non si sono fermati qui. Alla fine del mese di dicembre 2019 Sistema Museo ha manifestato ai propri soci lavoratori l’intenzione di variare il CCNL di riferimento (Turismo) – considerato troppo oneroso – e di applicare il CCNL Multiservizi e la relativa uscita dallo stato di crisi aziendale, durato in totale 9 anni. Multiservizi vuol dire una minor paga oraria e un taglio del salario che va dai 150 ai 300 euro mensili (su stipendi nella maggior parte dei casi inferiori ai mille euro al mese) e una retribuzione ridotta a circa 6 euro lordi all’ora. Cambio di contratto che vuol dire anche demansionamento e svilimento delle professionalità dei lavoratori altamente qualificati, com’è accaduto ad esempio per le guide che, a causa del cambio contatto, sono diventate accompagnatori, costretti quindi a dare solo informazioni di servizio e non a fornire ai pubblici interessati visite guidate tra le sale del museo. 

Insomma, ci spiegano i lavoratori, “la soluzione adottata da Sistema Museo è stata la dequalificazione del lavoro, oppure… tutti a casa, con prospettiva di fallimento e perdita del posto di lavoro. I soci lavoratori con coraggio hanno opposto il loro rifiuto a tale operazione, conferendo mandato di rappresentanza alla Filcams CGIL”. Dal mese di febbraio 2020 è stato convocato dall’azienda il tavolo di armonizzazione con la partecipazione delle Segreterie Nazionali di CGIL, CISL, UIL al fine di capire quali fossero le reali motivazioni di tale decisione e lo stato di salute di Sistema Museo.

Ma poi, indovinate un po’, è arrivata la scusa del virus. “Lo scoppio alla fine di febbraio della pandemia mondiale legata al COVID 19, ha bloccato il tavolo delle trattative e alla fine del mese di marzo Sistema Museo ha sottoscritto con la CISL e la UIL l’accordo di armonizzazione dove si evince che a decorrere del 01/01/2020 è individuato definitivamente come contratto di riferimento il CCNL Multiservizi”. Tutto chiaro? Di fatto escludendo il sindacato che contava il maggior numero di iscritti.

Tale firma ha fortemente incrinato i rapporti, già delicati, tra i soci lavoratori iscritti alla Filcams CGIL e la governance aziendale, che non si è neanche degnata di avvisare gli stessi dell’avvenuta firma dell’accordo tantomeno le stazioni appaltanti. Accordo che risulta essere fortemente penalizzante per i lavoratori e che non ha tenuto minimamente in considerazione le proposte della Filcams CGIL e soprattutto le esigenze dei lavoratori. A causa dell’emergenza sanitaria, l’attività dal 9 marzo 2020 è stata sospesa, tutti, tranne i dirigenti e affiliati, in cassa integrazione. Anche in Sardegna, dove, ci spiegano “la Regione aveva pubblicato un documento ufficiale con il quale invitava, attraverso il lavoro agile, tutte le aziende del settore culturale alla continuità produttiva. Gli amministratori di Sistema Museo, nonostante fosse perfettamente fattibile lavorare in sicurezza, hanno deciso unilateralmente di porre il personale in cassa integrazione”. L’azienda – ci perdonerete se non la chiamiamo cooperativa – ha deciso di non anticipare nulla, creando forti difficoltà ai soci lavoratori, nello stesso momento in cui firmava il nuovo “accordo” sul contratto.

Poi a maggio si torna al lavoro, con grandi difficoltà. Ci raccontano ancora: “nonostante riunioni e scambi di mail promettevano grandi azioni di igienizzazione e dispositivi speciali, vediamo pervenire semplicemente in dotazione delle mascherine chirurgiche d’urgenza (cioè una scatola a disposizione per chi non si fosse autonomamente organizzato) e una mascherina a persona 3M per l’accompagno in ascensore del visitatore (sia chiaro, anche questa usa e getta: una a lavoratore e usa e getta… qualcosa non torna)”. E poi “attività pressoché azzerate soprattutto di tipo didattico e, in questa fase, nessuna prospettiva progettuale (anche se da noi lavoratori stimolata) per Didattiche a Distanza”.

A Taranto ad ottobre viene depositata dalla CGIL la vertenza per condotta antisindacale del datore di lavoro (ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori). Nella sentenza il giudice rimanda al Tribunale di Perugia per competenza territoriale ma registra che la migrazione contrattuale non è stata effettuata a “regola d’arte” poiché la conclusione dell’accordo è stata effettuata senza il coinvolgimento della Filcams CGIL.

Ma cosa accade nel frattempo? “Il team di lavoratori che ha cercato di fronteggiare questa situazione é stato stremato da mobbing (per chi ha un contratto a tempo indeterminato), da azioni limitanti, sotto inquadramento e da una situazione psicologicamente pesante vede, soprattutto, per alcuni colleghi con contratti a tempo determinato, una prossima fine. Inoltre, le prestazioni occasionali (cosiddette, perché in maniera continuativa hanno lavorato per più di un anno) vedono l’interruzione definitiva, senza potersi appellare a niente. I lavoratori che hanno cercato di fronteggiare questa situazione si sono sindacalizzati e hanno preferito arginare questa situazione attraverso azioni legali o, chi ha visto aprirsi nuove possibilità, si è licenziato”.

Ora si rientra in una nuova fase di chiusura dei musei: “senza un obiettivo comune e un piano aziendale (che la nostra azienda non è mai stata in grado di fornire), solamente con alcune ore e per alcuni lavoratori (vicino agli apicali o figure chiave) e con la maggior parte dei lavoratori di nuovo in cassa integrazione” ci spiegano. “Abbiamo subito voluto evidenziare all’azienda e alle stazioni appaltanti, che i lavoratori non avrebbero gradito d’essere nuovamente posti in cassa integrazione. Siamo in attesa di una risposta ufficiale, soprattutto dalle stazioni appaltanti” aggiungono altri lavoratori.

Perché vi abbiamo raccontato tutta questa storia, nel minimo dettaglio? Per dare il nostro sostegno e appoggio alla lotta di questi lavoratori, certo, ma anche perché parliamo di una cooperativa che, per quanto ne sappiamo oggi, ha agito nella legalità. Ha vinto appalti pur essendo in crisi aziendale (e come avete visto, senza puntare sulla qualità dei servizi), ha sfruttato la crisi sanitaria causata dal covid per firmare un accordo escludendo un sindacato, non ha messo a conoscenza i vari amministratori locali delle variazioni di retribuzione e contrattuali, ha messo i lavoratori in cassa integrazione a spese dello Stato nonostante potesse non farlo. Tutto questo è la realtà quotidiana di questo sistema. Ciò che questa storia ha di eccezionale è che i lavoratori si sono organizzati, hanno manifestato, nel mese di giugno, dopo 3 mesi di lockdown, e hanno denunciato mandandoci dettagliate testimonianze. Come scrivono loro “questo periodo sta solo evidenziando le grandi debolezze del nostro settore: contratti non confacenti, operatori stanchi e sfruttati all’osso e stanchi della loro condizione di invisibilità alle pubbliche istituzioni. Ed è oltretutto la dimostrazione che le crisi economiche, di mercato e le contingenze non sempre e non per tutti sono una iattura, anzi. Delle volte rappresentano ghiotte opportunità, soprattutto quando c’è di mezzo il “sempre caro” denaro pubblico”.

Chiediamo a chi ci legge, e soprattutto a chi ha il compito di scrivere le leggi e di far funzionare il Ministero, perché non si stia mettendo in discussione questa follia limitandosi a elargire bonus alle aziende. 


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