Recovery Art_la cultura dell'emergenza e le sue derive

Il piano Recovery Art è la novità, da 800 milioni, presentata dal Governo Draghi per tutelare la cultura: ma appare basato su una logica di emergenza e eccezionalità tipica italiana.

Ormai è stato notato da tanti: alla cultura toccano solo briciole (6,675 miliardi) dello stanziamento complessivo del Pnrr (248 miliardi, in base alle ultime affermazioni), distribuite secondo un ordine di priorità che tutto pare toccare tranne il cuore dei problemi che da decenni affliggono il settore, dando l’impressione che l’agenda di Franceschini risponda a interessi che puntano piuttosto a risolvere problemi endemici di altri ministeri.

Il caso del Recovery Art, che analizzeremo in questo articolo, è emblematico. Unica novità sostanziale rispetto alle bozze diffuse in autunno, è un progetto che il Ministro pare avere particolarmente a cuore. Eppure, del Recovery Art, spacciato per fiore all’occhiello dell’intero programma, fino a una manciata di giorni fa non si sapeva pressoché nulla. 

Il piano definisce le azioni di tutela del patrimonio culturale a fronte di possibili calamità naturali, in tre sole linee di intervento: la messa in sicurezza sismica dei luoghi di culto del FEC (Fondo Edifici di Culto, facente capo al Ministero dell’Interno e che vede Eike Schmidt presidente del cda fino al 2022); la creazione di un Centro per il controllo e il monitoraggio dei Beni Culturali; l’istituzione di cinque depositi temporanei per la messa in sicurezza dei beni mobili (Recovery Art Conservation Project). Se, da un lato, sono ancora oscure le modalità operative, le finalità e l’ordinamento del Centro per il controllo e il monitoraggio, gli altri due punti del programma introducono attori e strategie d’azione ben noti, che destano da subito gravi perplessità. 

Una tutela per pochi

I finanziamenti al FEC investono una percentuale tutto sommato ridotta di edifici, che si contrae ulteriormente nel Centro-Sud, come è possibile appurare nel sito dell’ente. Ad esempio, nella provincia aquilana – tra le zone a più alto rischio sismico – le chiese del Fondo sono solo otto. Se ne contano altrettante tra Spoleto e la Valnerina, nove nel maceratese, dieci in Irpinia. Cosa è lecito aspettarsi per gli altri edifici, per le altre opere? Perché solo questa minoranza di chiese afferente al Ministero dell’Interno viene inserita in un progetto di manutenzione? Non risulta in atto o in agenda un piano di manutenzione e cura quotidiane, né si parla di attività di censimento e catalogazione sistematica del patrimonio, unici strumenti a consentire una conoscenza diffusa e davvero democratica dei beni culturali. 

Era parso, per qualche tempo, che i terremoti abbattutisi prima nel 1997 e poi nel 2016  sulla dorsale appenninica umbro-marchigiana – tra i più devastanti per le conseguenze sul patrimonio e sull’abitabilità delle aree interne – avessero insegnato qualcosa circa l’importanza della tutela continuativa e della documentazione ordinaria delle opere, che avessero restituito drammaticamente valore, inoltre, al legame inscindibile delle opere con i loro contesti di produzione e di fruizione, con i territori, con la vita quotidiana delle popolazioni. Questo legame era stato, in parte, già violato con il ricovero massivo nel Deposito di Santo Chiodo di Spoleto delle opere prelevate dal territorio umbro ferito dal sisma. È stato più volte rimarcato il carattere temporaneo di questa soluzione: eppure, ad oggi, molte di quelle opere non sono state restituite agli edifici che le custodivano e che ancora versano in stato di sostanziale abbandono, non meno delle campagne e dei centri circostanti.

L’emergenza che si fa modello

Nonostante le gravi criticità del caso, il Santo Chiodo, istituito nel 1997 in condizioni emergenziali ma assurto a paradigma virtuoso delle politiche ministeriali di tutela dopo il terremoto del 2016, ha costituito il modello cardine del progetto Recovery Art: l’istituzione dei grandi depositi temporanei “per la protezione dei beni culturali mobili in caso di calamità naturali”. Cinque, in tutta Italia. I luoghi deputati a questo sono stati scelti tra ex strutture militari ed ex centrali nucleari: Caserma Cerimant di Roma, le Casermette di Camerino, le ex centrali nucleari di Bosco Marengo (Alessandria), Caorso (Piacenza) e Garigliano (Caserta). 

Se la nuova destinazione d’uso appare tutto sommato comprensibile per le due caserme, prossime ai centri cittadini e prive di problematicità ecologiche, sorprende l’opzione delle centrali nucleari. Luoghi smisurati (nell’ordine dei chilometri quadrati), necessariamente situati a grandi distanze dai centri abitati e dai principali snodi viari, questi si candidano a diventare le ennesime cattedrali nel deserto: giganteschi hub di raccolta, che non sono al servizio alla rinascita del territorio, piuttosto alla retorica delle “grandi opere” e all’industria mediatica. Volendo tacere le eventuali implicazioni economiche, legate alla rifunzionalizzazione di spazi così vasti in cui per forza di cose gli ambienti destinati a deposito dovranno essere una piccola parte, non si può nascondere il timore che ogni soluzione di dislocamento fisico delle opere diventi – per vizio di genesi e di norma, oltre che per i costi – più permanente che temporanea. E potenzialmente rischiosissima per l’integrità della trama feconda del tessuto sociale, culturale e  storico-artistico.

Alle obiezioni di ordine teorico si aggiungono altri interrogativi irrisolti, come ad esempio quello sul personale: chi dovrebbe lavorare in questi super depositi? Come ribadito dal Consiglio Superiore dei Beni culturali lo scorso 24 dicembre, la carenza complessiva di personale rispetto alle dotazioni organiche ministeriali per gli anni 2015-2016 si attesta sul 50% nel 2021, raggiungendo punte addirittura del 75% in alcuni settori. E l’attività che più risente di questo dissanguamento, manco a farlo apposta, è proprio quella tutela del territorio, che dovrebbe essere il fondamento imprescindibile dell’intero sistema. 

Lo strano caso delle centrali nucleari in dismissione

Approfondendo l’indagine, non si trovano garanzie neppure sull’effettiva fruibilità di queste strutture in tempi brevi. Della Centrale di Garigliano, ad esempio. Situata sull’estremo confine settentrionale della Campania, si candida, in emergenza, a ricevere opere da tutto il centro-Sud, e quindi da regioni come Lazio, Molise (Zona 1 di rischio sismico, il più elevato) e Campania, in cui l’alto rischio sismico si combina oltretutto al rischio eruttivo. Ci si aspetterebbe, dunque, che il ministro abbia valutato tutte le criticità del caso e individuato una struttura ricettiva pronta (o quasi) a ogni nefasta evenienza. Eppure, stando ai dati pubblicati da SOGIN – società partecipata dal Ministero dell’Economia e attiva nel decommissioning delle ex centrali nucleari italiane – si apprende che lo smantellamento del reattore della Centrale di Garigliano non sarà completato prima del 2026. Dopodiché occorreranno altri anni per il trattamento di liquidi e scorie radioattive, con tutti gli attualissimi problemi di smaltimento che ne conseguono. In sintesi, nell’eventualità di un terremoto, non si potrà contare sul deposito di Garigliano almeno fino al 2030.

Non sembrano meno allarmanti i casi di Bosco Marengo (Alessandria) o di Caorso (Piacenza), che per di più sono lontani o lontanissimi dalle aree sismiche o vulcaniche, tanto che si fatica a immaginare quali territori potranno servire, in caso di necessità. In merito al primo sito, è recente la scoperta di scorie ancora radioattive nel sottosuolo, causate dallo sversamento di undici bidoni ritrovati nel 2014. Una vicenda che ha allungato i tempi del decommissioning, previsto per il 2020. Per Caorso, invece, ancora non si sono acquietate le polemiche sulle modalità con cui la Sogin sta provvedendo al trattamento delle resine e dei fanghi radioattivi, attraverso un contratto che prevede oltretutto lo smaltimento in Slovacchia. Per questa e per altre ragioni, totalmente svincolate dal piano del Ministero della Cultura, la senatrice Margherita Corrado del Gruppo Misto ha addirittura chiesto il commissariamento della stessa Sogin solo il 24 aprile scorso. Entrambe le ex-centrali, tra l’altro, all’inizio dell’anno comparivano in altra e ben diversa lista: quella dei 67 centri idonei al deposito dei rifiuti radioattivi, stilata da SOGIN e pubblicata il 5 gennaio scorso. Da siti per lo smaltimento a luoghi di ricovero per opere fragili: il cambio di destinazione, amaramente ironico, è troppo radicale per non chiedersi se siano state adeguatamente vagliate le strategie per convertire questi centri all’uso programmato.

In conclusione, questo Recovery Art sembra inserirsi nella ormai nota tradizione italiana di fare dell’emergenza una opportunità, nel Paese in cui le ricostruzioni diventano speculazioni e si organizzano mostre con le opere che ancora non sono rientrate nei luoghi d’origine. 800 milioni sono una cifra enorme, molto più di quanti ne abbiano a disposizione tutte le Soprintendenze d’Italia per i loro depositi ordinari, diffusi sul territorio e manchevoli. Speriamo che questa cifra non diventi sinonimo di sottrazione di fondi e beni culturali ai cittadini: non abbiamo bisogno di eccezionalità ed emergenza, ma di pianificazione e territorialità. 


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