Turisti al Colosseo

Il 29 e 30 luglio a Roma si terrà il G20 cultura. Una cerimonia che riassume nodi e contraddizioni del settore. Ecco perché manifesteremo in quell’occasione.

Tra i tanti G20 tenutisi in Italia in questo anno 2021, ovvero le riunioni dei venti ministri delle economie più grandi della Terra, quello dedicato alla Cultura ha fatto poco rumore, come da previsione. Niente a che vedere con l’impatto mediatico che hanno avuto il G20 Economia tenutosi a Venezia, o il G20 Ambiente, tenutosi a Napoli pochi giorni fa. Per l’aura di “superfluo” costruita nei decenni intorno al tema, ma anche perché, rispetto ai due citati, gli appuntamenti per la Cultura occupano solo due, e non tre, giorni di dibattiti. Ma sarebbe meglio dire un giorno, dato che la cerimonia d’apertura si terrà alle 19.00 del 29 luglio e i lavori si chiuderanno alle 17.00 del giorno successivo. Eppure per questa riunione il Ministro della Cultura (titolo da lui stesso stabilito) Dario Franceschini ha fatto le cose in grande: chiusura del Colosseo al pubblico per il 29 luglio – e limitazioni nei giorni precedenti – per consentire una cerimonia con buffet e la presentazione di quel progetto simbolo della carriera del ministro Franceschini che è la nuova copertura dell’arena del Colosseo.

Si tratta di una manifestazione di potere come tante altre, in cui il patrimonio culturale riveste il ruolo di set, di scenografia. E siamo certe che non c’è stata alcuna cattiveria esplicita nel chiudere, a visitatori e guide turistiche, il Colosseo in alta stagione, come Palazzo Barberini, Palazzo Reale, l’Arsenale di Venezia… pur in un anno come questo, in cui il settore turistico e culturale hanno subito una durissima serrata per mesi e ottenuto per contro sussidi troppo spesso insufficienti. La macchina delle celebrazioni doveva andare avanti, costi quel che costi

Non appare un caso che il momento principale di questa parata si tenga proprio al Colosseo, piccolo compendio di cosa non funzioni nel settore, eppure palcoscenico principe della propaganda di Stato. Il monumento più visitato d’Italia, cresciuto da 2,5 a 7 milioni di visitatori dal 1998 al 2021 – e crollato a 1 milione nel 2020, dato il rapporto pressoché nullo con il territorio e la città costruito negli anni del boom turistico – vede i servizi, e dunque una cospicua percentuale degli introiti degli stessi, concessi ad aziende private in deroga da vent’anni. Le stesse aziende che mettono al lavoro gli operatori con il contratto Multiservizi, proprio di servizi mensa e pulizie e non di servizi culturali, quando non a partita IVA coatta. Un monumento divenuto a uso esclusivo di TOD’s per via di un restauro mal fatto e, come spiegato dalla Corte dei Conti, previo versamento di una cifra del tutto inappropriata data l’enorme potenza mediatica e pubblicitaria del sito. E la ricostruzione dell’arena, per cui sono stati già stanziati 15 milioni pubblici, non può che andare nella stessa direzione: creazione di uno spazio per spettacoli esclusivi, così da garantire sbigliettamento e introiti ad aziende scelte. Mentre la manutenzione ordinaria, anche al Colosseo, resta alla porta, e la situazione peggiora verticalmente man mano che dal centro ci si sposta alla periferia. Si poteva forse inaugurare questo G20 in un luogo diverso? D’altronde, il patrimonio culturale cos’è oggi, come consegnatoci dalla pandemia? A cosa serve, ora che i turisti si sono dimezzati (quando va bene)? A cosa servirà nei prossimi, ora che l’introito economico per pochi non è più così scontato?

Il summit e le tematiche

La riunione, spiace dirlo, non affronta nemmeno di striscio questa impellente e nodale questione. I temi affrontati nelle poche ore di discussione saranno:
1. recupero del patrimonio dai mercati clandestini. 2. tutela del patrimonio dall’emergenza climatica. 3. transizione digitale. 4. formazione di nuovi operatori. 5. industrie culturali e creative.

Tutti questi argomenti sono stati e saranno affrontati come problemi a sé, non immersi in una crisi sistemica in cui il disfacimento del modello culturale novecentesco (rimodulato a fine secolo in senso più neoliberale) è solo una dei molteplici sintomi. Non potevamo aspettarci un’impostazione differente per questo G20 della Cultura, per il quale, comunque, bisogna attribuire i giusti meriti: si tratta infatti del primo tavolo dedicato esclusivamente alla Cultura all’interno di un G20 ed è pensato per diventare lo standard per il futuro prossimo. Ma per questo dobbiamo prendere parola.

Affrontare il traffico illecito come se fosse un problema di ordine pubblico, e non come un fenomeno sociale che ha a che fare con il ruolo che i manufatti antichi devono svolgere nella nostra società, ci porterà sulla stessa impercorribile strada della famosa “guerra alla droga” del presidente Nixon. Non basta una legge per cambiare un fenomeno sociale di questa portata, che posa sul fatto che quei manufatti non siano percepiti, da chi li rivende, come proprietà collettiva identitaria.
Per quanto riguarda la crisi climatica, è chiaro che in certi casi sarà necessario tutelare certi beni materiali dai più acuti fenomeni climatici, ma se non riusciremo a capire che può essere la tutela stessa dei beni culturali (materiali e immateriali) a fare da motore immobile per la resilienza al nuovo clima, allora ci troveremo nelle stesse condizioni di partenza e sulla stessa strada accennata prima: non possiamo curare i sintomi, dobbiamo rimuovere le cause scatenanti. Il consumo di suolo (che erode materialmente la natura e modifica il paesaggio in maniera irreversibile e non condivisa) sfrenato, la gestione quasi assente delle acque di superficie, il turismo di massa con frequenti spostamenti aerei di migliaia di chilometri, sono sintomi dell’assenza di una gestione e di una visione che non parte dall’idea di difendere, o di creare un mondo migliore. Per la transizione digitale, sempre presente nel dibattito di questi anni, si dimenticherà di dire in mano a chi saranno i mezzi per quella transizione, e a favore di chi: a cosa serve digitalizzare se nulla viene catalogato, e se ogni processo viene esternalizzato con una perdita di competenze e fondi pubblici?
Gli ultimi due punti di queste otto ore di discussione – chiaramente bastevoli solo per affrontare una di queste tematiche così vaste – riguardano le imprese creative come chiave della crescita, e la formazione di nuovi operatori. Non si parlerà di come evitare di disperdere l’enorme quantità di competenze che ogni anno esce dalle università italiane e non e non trova possibilità di spendersi per il bene comune, ma di formarne di nuovi, più idonei a questo sistema che si vuole a forza creare. Non a caso a parlarne vi sarà il presidente della Scuola del Patrimonio, fondazione inutile e costosissima che da mesi cerca disperatamente di giustificare la propria esistenza sostenendo di essere in grado di fornire le nuove professionalità “richieste”. E infine si parlerà del ruolo delle industrie creative (e si badi, non del patrimonio) nella rigenerazione delle nostre economie, nella crescita. Sia mai che invece si parli di cultura come strumento utile al progresso delle nostre democrazie, o alla creazione di un ambiente critico e stimolante per lo sviluppo delle nostre società. Che possa essere, ad esempio, un antidoto naturale contro le notizie false, la propaganda, l’abbandono scolastico, l’esclusione sociale.

La lista dei temi assenti sarebbe enorme, ma certo in un summit simile stupisce non solo che non si dibatta affatto di che ruolo abbia il patrimonio culturale in una fase di crollo del turismo, ma anche di che genere di lavoro culturale abbiamo in mente, dopo i massicci licenziamenti e la riduzione dei diritti del 2020, non solo in Italia ma anche e soprattutto negli Stati Uniti.

Oltre il G20

L’invenzione fortunata della tutela del patrimonio risale a un tempo in cui la Cultura – rigorosamente con la maiuscola – e lo studio di questa, erano appannaggio delle élites, anche in quanto strumento di autorappresentazione e simbolo dell’appartenenza stessa alla classe dirigente. Quel tipo di visione non si è ancora dissolto e tutt’oggi domina sia nella propaganda ministeriale sia nei cuori di molti tra chi candidamente si adopera o lavora nel settore. Discorsi sulla Bellezza, sulla Cultura, sul Patrimonio, intesi come mezzi e strumenti per elevare lo status della popolazione, in una visione dall’alto verso il basso. In questa visione, che già veniva messa sotto accusa alla fine del secolo scorso, si è inserito come un treno in corsa il turismo di massa e la sbigliettazione massiva. Gli spazi culturali oggi sono gestiti troppo spesso secondo questi termini manchevoli e contraddittori. Non solo non sono raccontati come “spazi per i cittadini” e quindi per tutti, ma al contempo si parla di “turismo selezionato”, “altospendente” (neologismo curioso per evitare di usare la parola ricco) e si costruiscono strutture fisiche e non, per limitare l’accesso a spazi e servizi. Tutto questo sistema di valori e priorità è superato da tempo e in profonda crisi, seppur negata dalla propaganda ministeriale.

Se il patrimonio culturale non serve ai cittadini, non è al servizio dei cittadini, non è al servizio di chi vi lavora, a cosa serve? a chi serve? E perché dovremmo finanziarlo con le nostre tasse in quanto servizio pubblico essenziale? Per beneficenza verso la classe dirigente? o per il divertimento di chi potrà continuare a permettersi biglietti sempre più onerosi?
Si può cambiare e si deve, per salvare il patrimonio culturale e per farne un pilastro nella ricomposizione della società. Riconoscere pubblicamente e per davvero il ruolo essenziale del lavoro culturale, e tutelarne i lavoratori; riconoscere pubblicamente il divario immenso per censo, “etnia”, estrazione sociale, interessi e studi che limita l’accessibilità e la fruizione del patrimonio culturale; avviare un percorso pubblico, ovvero anche intensamente discusso e pubblicizzato, di messa a rete di qualsiasi spazio culturale, non solo dei musei, come abbiamo già proposto in diverse occasioni.

Tutte queste istanze, i cui nodi principali sono sentiti dalla maggioranza di chi lavora e vive nel settore, non appaiono se non marginalmente all’interno dei dibattiti del G20. A questa serie infinita di domande starà a noi dare una risposta, o trovarla attraverso la lotta e attraverso la costruzione di buone pratiche. Starà a noi ricomporre tutto, perché una società ancora più gerarchica e spaccata non può che collassarci addosso. Di fronte a queste sfide il nostro settore potrà essere una nuova colonna portante, un nuovo tipo di perno, questa volta veramente libero e democratico, grazie al quale restaurare e costruire la società nuova che si sta formando innanzi a noi. Iniziamo costringendo i ministri del G20 ad ascoltare la nostra voce, il 29 luglio alle 10, al Colosseo.


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