Ancor oggi, nel 2018, per poter ammirare alcune delle vette più alte dell’arte e dell’artigianato africano delle ultime migliaia di anni, si dovranno visitare alcuni importanti musei europei, sparsi anzitutto, ma non solo, tra Francia, Belgio, Regno Unito, Olanda e Germania. I manufatti fanno parte di collezioni museali “inalienabili”, con buona pace di chi li riconsegnerebbe alle comunità da cui provengono. Questo fino all’anno scorso.

Da quando, infatti, il 28 Novembre 2017, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato l’intenzione di “procedere a restituzioni temporanee o definitive del patrimonio culturale africano in Africa”, nei musei occidentali si è sollevato un mormorìo. Davvero i Francesi vogliono restituire tutto ciò che era stato trafugato durante il colonialismo, ci si chiede? E come si fa? E chi pensa alle conseguenze?

In effetti le parole di Macron, e le successive azioni (l’attivazione il 22 marzo scorso della commissione Savoy-Sarr), sono arrivate come un fulmine a ciel sereno. Anche perché il presidente ha parlato del patrimonio culturale africano detenuto non solo dalla Francia, andando ben oltre il suo ruolo. Nonostante sia molto facile vedere in questa mossa imprevedibile un tentativo spregiudicato di accreditarsi il titolo di primo interlocutore del continente africano, si può decisamente affermare che il presidente francese abbia avuto il merito di sollevare un tema condivisibile e necessario.

Sia chiaro, il tema della restituzione delle opere d’arte trafugate non è affatto nuovo: già la Convenzione dell’Aja del 1954 trattava la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, mentre la Convenzione UNESCO del 1970 citava misure per interdire e impedire l’illecita  importazione, esportazione e trasferimento dei beni culturali, spiegando che il trafugamento è una delle cause principali di impoverimento del patrimonio culturale dei paesi d’origine: convenzione, quest’ultima, che per questo ha visto la mancata ratifica di diversi Paesi. Non sono mancati neppure i casi di restituzione, spesso legati a interessi politici: anche i governi D’Alema e Berlusconi avevano restituito alla Libia beni culturali per instaurare un rapporto preferenziale con il regime di Gheddafi.

Ma il dibattito che si sta scatenando ora è ben diverso, nell’impatto e nelle ambizioni. Non solo perché è la Francia, ex potenza coloniale, a commissionare un rapporto sul tema, ma anche perché il rapporto Savoy-Sarr si pone l’obiettivo di valutare tutti i casi di trafugamento in mancanza di consensualità, non solo i saccheggi in occasione di conflitti armati. E  questa operazione sta già avendo degli effetti a valanga, seppur indiretti: ad esempio, il prestito temporaneo dei Bronzi del Benin (frutto di saccheggio) dal British Museum alla Nigeria o la volontà di restituire migliaia di artefatti da parte di quattro importanti musei olandesi.

Certo la sfida è decisamente complessa. Dobbiamo iniziare a parlare di decolonizzazione culturale: non i discendenti dei colonizzatori a decidere cosa, come e quando restituire o prestare, ma i discendenti dei colonizzati a chiederlo, spiegando il perché. Si solleveranno un’infinità di criticità, e molti dubbi resteranno irrisolti, come stanno già spiegando diversi giornalisti (vedi qui). Che regole seguire adesso? Come cambiare gli statuti dei musei, e perché? Sarà un’operazione imperfetta, come ogni operazione culturale e politica. Ma non è un buon motivo per non iniziarla e portarla a compimento nella maniera migliore possibile, costruendo una nuova normativa internazionale sul tema. Non è più possibile alcun silenzio o attendismo (che invece continuiamo a registrare da più parti) in nome del mantra “il passato è passato”: la decolonizzazione culturale è operazione necessaria per restituire dignità ai popoli ai quali sia stato sottratto il loro patrimonio, materiale e immateriale, spogliandoli delle proprie testimonianze storico-culturali.

Come professionisti dei beni culturali europei, dal più precario e debole fino ai direttori dei più grandi musei, dobbiamo chiederci: siamo pronti ad affrontare da pari a pari, con dignità e rispetto, le legittime richieste di rimpatrio che arrivano dalle società che abbiamo derubato, combattuto e colonizzato in tutto il mondo? Nella risposta, sta la base della nostra stessa concezione di patrimonio culturale.


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