Da giorni il Corriere della Sera propone di finanziare il Patrimonio culturale italiano attraverso la vendita di obbligazioni finanziarie. Ma che senso avrebbe?

Giovedì 26 marzo compariva sul Corriere della Sera un articolo firmato dall’editorialista Pierluigi Battista, dal titolo “La cultura ha bisogno di ossigeno: un Fondo nazionale per salvarla”. In breve il giornalista proponeva la creazione di un fondo di investimento “gestito con gli strumenti che sono propri delle banche e del mondo finanziario” con cui i risparmiatori possano non donare, ma fare “un prestito” alla Cultura, comprando dallo Stato obbligazioni finanziarie (bond). Dato che tali obbligazioni sono fornite dalle banche in cambio di un ritorno certo, e dato che il Patrimonio culturale italiano è per definizione senza scopo di lucro, la proposta appare insensata, in un momento di crisi strutturale e di sistema come quello in cui stiamo vivendo.

Proposte simili arrivano tutti i giorni da persone senza competenze nella gestione e amministrazione del Patrimonio, come l’editorialista in questione, e non meritano di norma alcuna attenzione. Ma quando una proposta tanto strana esce sul Corriere della Sera e in tre giorni viene sostenuta dal Presidente del Fondo Ambiente Italiano, dalla presidente della Fondazione MAXXI, dal Sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma (altra fondazione), e poi da presidente e direttore di Federculture – che rappresenta le imprese del settore – insomma dal più importante e letto quotidiano italiano e dall’intero establishment che ha governato il Patrimonio culturale italiano negli ultimi decenni, sorge il dubbio che qualcuno potrebbe prenderla per una proposta seria.

A scanso di equivoci, non si vede proprio quale vantaggio possa produrre per il Patrimonio culturale italiano la creazione di un Fondo di investimento e di “Culturabond”. In pratica il Patrimonio culturale italiano, invece di limitarsi a ricevere donazioni private e investimenti statali, cederebbe una parte di sé stesso a un fondo di investimento finanziario, aprendosi quindi ad investitori (non più donatori). Quando l’autore sottolinea che si tratterebbe di “un prestito, non un obolo”, che deve essere un fondo non pubblico ma misto pubblico e privato, e che deve sottostare alle regole del mondo finanziario, prospetta molto banalmente uno spazio in cui chiunque, nel mondo, possa investire nel Patrimonio culturale italiano, ottenendo un qualche tipo di ritorno. Ritorno pressoché nullo nel caso in cui si investano 10 euro, ma consistente nel caso in cui si investano 40 o 50 milioni. Si badi che chiunque già ora può donare 50 milioni di euro al Patrimonio pubblico italiano: ma questo resta pubblico. Col sistema dei “Culturabond” invece, lo Stato, indebitatosi, si impegnerebbe a garantire all’investitore un vantaggio: e questo vantaggio, questo ritorno, si baserebbe sul far fruttare economicamente (per gli investitori) il Patrimonio, dopo aver garantito la vendita di obbligazioni a bassissimo prezzo nel pieno della crisi. Un harakiri. E poi i soldi di questo fondo “insieme pubblico e privato” a chi andrebbero? Alla tutela del Patrimonio pubblico o al sostegno delle aziende e fondazioni private che ne detengono una parte? Nessuno degli articoli del Corriere l’ha spiegato (anche se si accenna che la gestione dei fondi sarebbe a capo di un’amministrazione bancaria), ma l’entusiasmo di FAI, Federculture e Fondazioni fa supporre facilmente la risposta.

Per farla breve: il Patrimonio culturale italiano ha bisogno di riforme strutturali, che portino a una migliore gestione e amministrazione. Ma a quanto pare c’è una parte di establishment che, nel disperato tentativo di non cambiare nulla e ottenere un maggiore controllo sul Patrimonio pubblico, propone un fondo d’investimento che ne privatizzi una parte ulteriore. Ora, trasferire in questa fase parte del Patrimonio italiano dall’amministrazione pubblica (tecnica e, almeno in teoria, culturale) all’amministrazione bancario-finanziaria non è certo parte della soluzione. Anzi. Facciamo i seri, si pensi alle riforme e si attraggano donazioni, anche garantendo sgravi fiscali, non “prestiti”; si attivino risorse umane e lavoro, non bond.

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