Fondo di investimento per la Cultura

Una breve sintesi per spiegare nel dettaglio in cosa consiste il “Fondo di investimento” per la Cultura, che il Corriere della Sera sta promuovendo senza chiarirne i termini.

Da giovedì scorso il Corriere della Sera sta insistentemente promuovendo l’idea di un “Fondo di investimento” legato al Patrimonio culturale. In una settimana non è stato fornito alcun dettaglio su questa idea. Finora la proposta ha ottenuto soltanto il sostegno di diverse persone e istituzioni con forti interessi nel settore culturale (FAI, Fondazioni varie, Musei di Confindustria…), e, lo sottolineiamo, di nessun economista.

Per chi ha una conoscenza minima dei principi dell’economia e della finanza, infatti, l’inopportunità ma anche l’assurdità dell’idea è immediatamente chiara. L’ambiguità del linguaggio usato dagli articoli del Corriere, e la sensazione che alcuni dei sostenitori non abbiano chiaro cosa stiano sostenendo di preciso (lo stesso Pierluigi Battista, primo promotore, lunedì 30 marzo ha ammesso di non conoscere “la fattibilità di un fondo simile”), ci spingono però a chiarire nel dettaglio i contorni della proposta, per evitare che, oggi come in futuro, questa possa trovare sponde giocando sulle limitate competenze finanziarie diffuse nel settore culturale.

Il Fondo di Investimento: uso e precondizioni

Iniziamo sottolineando che un Fondo di Investimento non ha nulla a che vedere con “fondi”, come il Fondo Unico per lo Spettacolo o altri fondi istituiti ora o in passato in Italia o in Europa per stanziare investimenti e sostegno per un determinato settore. Il Fondo di Investimento è uno strumento finanziario proprio della borsa, con cui si possono vendere titoli finanziari (bond) scommettendo sul buon andamento del prodotto che si va a giocare in borsa. Di norma è usato dalle aziende che pensano di ottenere maggiore liquidità garantendo agli investitori un ritorno economico: nel caso di beni pubblici, lo Stato può farne uso ad esempio nel caso di un’azienda a gestione pubblica che faccia ottimi introiti.

Non esiste in Europa alcun esempio di Fondo di Investimento legato al Patrimonio Culturale, e i motivi sono abbastanza ovvi, stando quello che si è detto: il Patrimonio Culturale pubblico ha fortissimi costi di gestione, è senza scopo di lucro e può garantire introiti agli investitori solo a costo di sacrifici durissimi e, per sintetizzare, inutili. Se infatti lo Stato italiano dovesse decidere, come chiede il Corriere, di creare un Fondo di Investimento e vendere bond “di settore”, la vendita di questi titoli sarebbe concessa allo Stato solo a condizioni estremamente sfavorevoli. Investire nella Cultura italiana è infatti una scelta ad altissimo rischio per le regole della borsa, in particolare in un momento di crisi come questo: nessuno comprerebbe quei bond salvo lo Stato si piegasse condizioni durissime per garantire gli investitori, quali il taglio (ulteriore) dei costi e del personale, la messa in vendita di determinati beni pubblici e via discorrendo.

Quindi quali vantaggi potrebbe trarre lo Stato dalla creazione di questo Fondo finanziario?

Nessuno, razionalmente. Il settore non è adatto a giocare in borsa, perché i vantaggi sarebbero nulli e i rischi altissimi (vedi oltre). Nessuno Stato in Europa ha mai pensato di giocare in borsa il proprio Patrimonio culturale.

Ma a chi servirebbe allora la mossa proposta dal Corriere?

Agli investitori, in particolare ai grandi investitori, che magari vogliono investire 30, 40, 50 milioni di euro nel Patrimonio culturale italiano in condizioni molto vantaggiose per loro e altamente sfavorevoli per lo Stato: la messa in atto di questa proposta andrebbe ad avvantaggiare anzitutto queste imprese e aziende e il loro bisogno costante di liquidità. 

Non solo, più in generale sarebbe utile a coloro che giocano in borsa. Immettendo nel mercati finanziario titolo nuovi, appetibili, infatti, la borsa va meglio. In un momento di crisi come questo, giocare in borsa il Teatro alla Scala o il Museo del Bargello potrebbe “drogare” il mercato, dato che sono alcuni dei beni pubblici più attrattivi e appetibili in assoluto che possiede l’Italia: va detto però che ciò sarebbe una pura scommessa, dato che, secondo molti economisti, è irrealistico in questa fase storica che gli investitori decidano di giocare sul mercato finanziario e sulla creazione di liquidità, a causa della volatilità dei tassi e quindi del potenziale rendimento dei bond (anche quelli molti più sicuri di questi ipotetici “Culturabond”). 

Di fatto il Corriere della Sera, non sappiamo quanto coscientemente, sta chiedendo allo Stato Italiano di immettere sul mercato finanziario i propri beni pubblici adesso per permettere ad altri di fare affari, sperando che, anche in buona fede, tanti piccoli investitori italiani decidano di comprare 10-20 mila euro di “Culturabond”, pensando di aiutare il Patrimonio culturale, quando invece starebbero aiutando solo gli affari dei grandi investitori.

Quindi se creassero davvero questo Fondo cosa potrebbe accadere?

Contiamo e confidiamo che, anche grazie a questo articolo, a nessuno mai salti in mente di creare nulla di simile. Dato tutto quello che si è detto e le condizioni che sarebbero imposte allo Stato, tre scenari realistici potrebbero essere questi:

SCENARIO 1, quello ottimista: la cultura italiana in pochi mesi riparte, i teatri e i musei sono pieni, c’è un boom turistico e fame di cultura generalizzata. Poiché si è vincolato tutto al Fondo di investimento, tutti gli introiti vanno agli investitori, con possibilità di crescita occupazionale nulla, dato che il contenimento dei costi sarebbe certamente tra le precondizioni.

SCENARIO 2, quello equilibrato: gli investitori battono cassa per avere il ritorno economico che lo Stato gli aveva garantito al momento della vendita dei bond, ma dato il momento di crisi la cultura stenta a ripartire. Dunque lo Stato, per evitare lo “scenario tre”, ripaga gli investitori in biglietti per teatri, mostre, musei (ad es. 100 euro di biglietti ogni 20 euro investiti in bond), o altri servizi, garantendogli la possibilità di rivenderli a prezzo maggiorato. Una specie di bagarinaggio legalizzato.

SCENARIO 3, quello pessimista: le cose vanno male, la Cultura non riparte e lo Stato non è in grado di ripagare gli investitori. Quindi tutti i beni culturali che erano stati inseriti nel Fondo diventano di proprietà degli investitori: siano essi russi, sauditi, italiani, cinesi, non fa nessuna differenza, conta chi ha investito di più. Si badi che, per rendere attrattivi bond simili, non basterebbe certo giocarsi i piccoli Musei di provincia, ma i pezzi pregiati, rischiando tutto.

Avrete notato che anche lo scenario più ottimista non produrrebbe alcun vantaggio per lo Stato.

Ecco, sappiamo che sembra fantascienza, ma è esattamente ciò che il Corriere sta proponendo e promuovendo. Non sappiamo perché, non sappiamo come sia possibile che un’idea simile sia apparsa sul più importante quotidiano nazionale italiano, non sappiamo chi gliel’abbia suggerita, e siamo convinti che la maggior parte delle persone che in buona fede sta sostenendo l’idea proposta da Pierluigi Battista sul Corriere non abbia compreso cosa imporrebbe.

Certo che servono fondi per la cultura, certo che serve un fondo che attragga donazioni, ma un Fondo di investimento finanziario è tutt’altro e ha tutt’altre regole. Ci auguriamo con queste righe di aver spiegato, in modo semplice e immediato, di cosa si tratti, e perché l’idea sia del tutto insensata e priva di vantaggi non solo ora, ma in assoluto. Ribadiamo che nessun economista si è azzardato ad avallare un’operazione simile.

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