L’ARCHEOLOGIA AL PUNTO DI NON RITORNO

UN MANIFESTO

Siamo archeologhe e archeologi italiani e da tempo fatichiamo a riconoscerci nella realtà che ci circonda. L’archeologia è oggi attiva come materia di studio, con corsi di laurea e post-lauream, in moltissime università italiane, mentre occupa periodicamente spazi su giornali e TV con le sue “scoperte”. Eppure, vive una crisi sistemica senza precedenti dalla sua nascita, quando cioè tra la fine del XVIII e il XIX secolo fu creata da un’élite come strumento di studio delle civiltà del passato funzionale alla propria auto-rappresentazione e alla legittimazione del presente, legandosi alle identità nazionali e locali che si andavano formando in Italia e non solo. 

Oggi l’archeologia, soprattutto grazie al Sessantotto e alla conseguente apertura delle università a tutte le classi sociali, non è più una disciplina aperta solo a un’élite e utilizzata dalla stessa per autolegittimarsi. Ma nell’arco di questa evoluzione è mancata una riflessione profonda e collettiva su cosa sia l’archeologia, sul ruolo che dovrebbe rivestire nella società e su come possa perdere la natura elitaria e classista che ne ha caratterizzato nascita e sviluppo. Non solo: in questo stesso arco di tempo, mentre si definiva una professione archeologica al di fuori dell’ambito accademico e statale, la disciplina è stata di fatto commercializzata, venendo ad essere fortemente legata al mercato edilizio e turistico. Con un’accelerazione netta negli ultimi trent’anni, dopo l’ingresso nel sistema neo-liberista.

In cortocircuito: interesse collettivo vs interesse privato

L’archeologia italiana risulta oggi più che mai stretta tra due opposte e contraddittorie esigenze: da una parte quella collettiva di tutela del patrimonio archeologico e l’accrescimento della sua conoscenza attraverso attività di studio e ricerca, dall’altra l’esigenza di inserirsi “competitivamente” nella filiera edile o turistica secondo le leggi di mercato. 

Da un lato, quindi, l’archeologo/a opera per conto di un ente pubblico, la Soprintendenza, facendo da garante di un interesse collettivo, per il quale, tuttavia, sono spesso i privati a pagare; dall’altro l’archeologo/a o la ditta archeologica si trova a operare nel mercato edilizio, andando paradossalmente contro gli interessi della committenza stessa, che considera spesso l’archeologia una spesa non programmata e sostanzialmente inutile. 

E’ in questo modo che l’interesse collettivo viene progressivamente svuotato di senso, sommandosi alla puntuale insufficienza di comunicazione dei risultati anche negli ambiti più specificatamente dedicati alla ricerca, a causa della sistemica ristrettezza di risorse di cui soffrono Soprintendenza e Università. E anche laddove una comunicazione pubblica venga effettivamente svolta, questo avviene spesso più ad uso e consumo del mercato turistico che per diffondere la ricostruzione storico-archeologica, seguendo dunque necessariamente più l’emozione e il sensazionalismo. 

Questo evidente cortocircuito pone la disciplina in una posizione tale per cui non si può rispondere alla domanda “a cosa serve oggi l’archeologia?” senza incontrare un conflitto, del quale risentono la qualità di vita e di lavoro di chi opera nel settore, così come la considerazione sociale del mestiere, sia nel pubblico che nel privato.

Nel settore pubblico, dove deliberatamente non si fanno adeguati piani di assunzioni da anni, i posti di lavoro residui sono tanto pochi da costringere a una sfrenata competizione per accaparrarseli. Nel settore privato, incardinato in una filiera edile che relega l’archeologia ad un ambito per lo più emergenziale, il costo del lavoro diviene elemento decisivo per aggiudicarsi impieghi e commesse secondo il principio del massimo ribasso. Le strutturali condizioni di precarietà e sfruttamento contribuiscono a dividere i/le lavoratori/lavoratrici, impedendo loro di organizzarsi e portare avanti lotte unitarie, scioperi, grandi manifestazioni e movimenti. In questo contesto, sempre più archeologi e archeologhe cambiano mestiere, e lo fanno soprattutto quelli/e che non hanno alle spalle un solido welfare familiare. 

Un cambio di paradigma

Davanti a questo “punto di non ritorno” in cui la disciplina è impantanata è necessario riportare l’interesse collettivo e la committenza pubblica al centro e ottenere un piano di assunzioni massiccio negli uffici pubblici preposti; occorre promuovere uno sviluppo socio-economico delle comunità in armonia con la tutela e la valorizzazione del territorio, anzitutto attraverso l’inserimento della figura professionale dell’archeologo anche all’interno degli enti territoriali (regioni, comuni, ecc.), come già avviene per altre figure professionali; occorre rendere vincolanti gli eventi divulgativi e di informazione alla comunità; è necessario rendere meno conveniente l’impiego delle partite iva introducendo compensi minimi alti, per spingere le aziende che tentano di scaricare sul professionista il costo del lavoro e il rischio d’impresa ad assumere o chiudere; occorre infine imporre alla categoria una riflessione sul tema “a cosa serve l’archeologia nella nostra società?” e sul suo valore sociale, al di fuori del ruolo – presunto o reale – di strumento dell’autorappresentazione nazionalista/localista, di prodotto turistico e di “costola” del mercato edilizio.

Lo stato delle cose non è mai dato una volta per sempre, come archeologhe e archeologi lo sappiamo bene. La nostra condizione è l’esito di una precisa scelta politica, imposta dall’alto, subìta dal basso e mantenuta tale proprio attraverso l’idea secondo cui un’alternativa non è concepibile né attuabile. Al contrario, possiamo e dobbiamo costruire il futuro nostro e dell’archeologia senza “restaurazioni”, facendola vivere – e non sopravvivere – nel XXI secolo. 

Per questo chiediamo a tutte le archeologhe e gli archeologi – impiegati/e nel settore privato, ma anche nel Ministero e nelle Università – di affrontare insieme i nodi esposti nel documento.

Vogliamo porre le basi per creare un fronte unitario che si opponga allo stato attuale, che consenta scioperi e altre forme conflittuali di rivendicazione dei diritti, per ottenere dignità salariale e contrattuale, per liberare la nostra figura professionale dagli interessi privatistici di pochi e per rivendicarne la centralità politico-sociale. 

Abbiamo bisogno dell’archeologia per costruire il futuro. Ma non di questa archeologia.

Per questo vi invitiamo ad attivarvi con noi. Per questo ci prepariamo a convocare una grande assemblea degli archeologi e delle archeologhe che si riconoscono in queste parole e in questa visione: a Roma, il prossimo 17 settembre. 

Associazione Mi Riconosci?

Sindacato SLANG-USB

CLAP – Camere del Lavoro Autonomo e Precario


4 Comments

Matteo Laudato · 11/07/2022 at 18:43

Io lavoro all’estero ormai da più di 10 anni. Concordo con la vostra interpretazione, anche se potrebbe approfondirsi in direzioni che sono state esplorate, in altri paesi, ormai da molti anni. Mi piacerebbe potr rimanere in contatto e contribuire. Grazie.

Luigi Malnati · 30/07/2022 at 12:16

Inutile dire che concordo praticamente su tutto. Mi piacerebbe chevex colleghi del Ministero e accademici e le varie – troppe – associazioninaderissero al convegno senza interessi di parte. In questi anni ho scritto e fatto ciò che potevo. Va assolutamente chiesto al MiC di TOGLIERE IL BAVAGLIO A FUNZIONARI E DIRIGENTI, ormai divisi tra di loro, per raccontarevle vere condizionindi lavoro
Con stima

Marco Di Branco · 18/09/2022 at 18:13

Concordo su molti punti, ma non vedo adeguatamente messo in rilievo il problema del reclutamento in università e soprintendenze, ormai nelle mani di vere e proprie cricche che spadroneggiano, selezionando servi e yes-men utili alla loro causa.

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